"Firenze, starò fuori una settimana. Magari ci sentiamo quando

torno."

"A fare che?"

"Ma, per lavoro, altre serate, altre cose. Ma che, me stai a fa'

l'interrogatorio? Senti, oh, guarda che così mi stressi... mi stai

sempre

addosso, e mollami! "

E così Madda scende al volo e sale sulla prima macchina che

passa. È quella di Mengoni ed è ancora più felice di andare via

con

lui. Ernesto le corre dietro gridando.

"Dove vai? Aspetta!"

Madda sorride tra sé. Ma aspetta che? Il giubbotto rosa è già a

casa che m'aspetta. E senza dartela. Che serata. Da sogno! Ho pure

conciato per le feste la Gervasi piccola. È stato veramente un

sogno!

E Madda non sa, invece, a quale incubo ha dato vita.

Capitolo 12.

Dormiveglia. Sento i rumori di Paolo dalla cucina. Mio fratello.

Muove le cose cercando di non fare rumore, lo capisco da come

vengono poggiati i piatti sul tavolo e richiusi i cassetti. Mio

fratello

è una donna. Ha le stesse attenzioni che aveva mia madre. Mia

madre. Sono due anni che non la vedo, chissà come avrà adesso i

capelli. Li cambiava spesso nell'ultimo anno. Seguiva la moda, i

consigli delle amiche, una foto su un giornale. Non ho mai capito

perché una donna è sempre così fissata sui capelli. Mi viene in

mente

un film con Lino Ventura e Françoise Fabian, Una donna e una

canaglia. 1970. Lui finisce in prigione. Lei va a trovarlo. Buio.

Si

sentono solo le loro voci.

"Cosa c'è?... Perché mi guardi così?"

"Hai cambiato taglio di capelli."

"Non ti piaccio?"

"No, è che quando una donna cambia taglio di capelli vuol dire

anche che sta per cambiare uomo."

Sorrido. Mia madre ha visto molte volte quel film. Magari ha

preso sul serio quelle parole. Una cosa è sicura: ogni volta che

la

incontro non ha mai lo stesso taglio. Paolo compare sulla porta,

la

apre piano, attento a non farla cigolare: "Stefano, vieni a fare

colazione?".


Mi giro verso di lui: "Hai preparato roba buona?".

Rimane un momento perplesso: "Sì, credo di sì".

"Va bene, allora vengo." Non capisce mai quando scherzo. In

questo non ha preso da mia madre. Mi infilo una felpa e rimango

in mutande.

"Ammazza come sei dimagrito."

"Di nuovo... Già me lo hai detto."

"Dovrei trasferirmi anch'io per un anno in America. Si tocca

un rotolo della pancia prendendolo tra due dita: "Guarda qui".

"Il potere e la ricchezza regalano la pancia."

"Allora dovrei essere magrissimo. " Cerca di buttarla sullo

scherzo.

Anche in questo è diverso da mamma perché non gli riesce.

"A che pensi?"

"Che sei forte ad apparecchiare."

Si siede soddisfatto: "Be' sì, mi piace..." . Mi passa il caffè.

Io lo

prendo e a occhio ci aggiungo un po' di latte freddo, senza

neanche

provarlo, poi addento un grosso biscotto al cioccolato: "Buono".

"È cacao amaro. Li ho presi per te. A me non piacciono. Sono

troppo amari. Mamma te li prendeva sempre quando stavamo a casa

tutti insieme."

Rimango in silenzio a bere del caffellatte. Paolo mi guarda. Per

un attimo vorrebbe aggiungere qualche cosa. Ma ci ripensa e si

prepara

il suo cappuccino.

"Ah, ieri sera ti ha chiamato quella ragazza, Eva Simoni, ti ha

trovato sul telefonino?"

Eva. Ecco come si chiama: Simoni. Mio fratello sa pure il cognome.


"Sì, mi ha trovato."

"E l'hai vista?"

"Che sono tutte queste domande?"

"Sono curioso, aveva una bella voce."

"All'altezza del resto."

Finisco di bere il caffellatte: "Ciao Pa', ci vediamo".

"Beato te che stai così."

"Che vuol dire?"

Paolo si alza e comincia a mettere tutto a posto: "Dai, che stai

così, libero, te la diverti, fai quello che ti pare. Sei stato

fuori, sei

ancora sul sospeso, non definito".

"Sì, sono fortunato." Me ne vado. Gli dovrei dire troppe cose.

Gli dovrei spiegare in maniera gentile che ha detto un'ignobile,

grande, terribile cazzata. Che uno cerca la libertà solo quando si

sente prigioniero. Ma sono stanco. Ora non mi va, non mi va

proprio.

Entro in camera, guardo la sveglia sul comodino e riesco di

botto.

"Cazzo, ma tu mi hai svegliato e sono solo le nove?"

"Sì, fra poco devo stare in ufficio."

"Ma io no!"

"Sì, lo so, ma visto che devi andare da papà..." Mi guarda

perplesso.

"Ma... non te l'avevo detto?"

"No, non me l'avevi detto."

Continua a mantenere una certa sicurezza. Poi mi guarda col

dubbio di averlo fatto o meno. E veramente sicuro di avermelo

detto,

oppure è un grande attore.

"Be', comunque ti aspetta alle dieci. Ho fatto bene a svegliarti,

no?

"E certo, come no. Grazie Paolo."

"Figurati."

Niente. Ironia zero. Continua a mettere le tazze e la caffettiera

nel lavabo tutto ordinatamente nella vasca a destra, sempre e solo

in quella a destra.

Poi torna sull'argomento.

"Ehi, ma non mi chiedi perché papà ti vuole vedere alle dieci,

non sei curioso?"

"Be', se mi vuole vedere immagino che poi me lo dirà."

"E già, certo."

Vedo che è rimasto un po' male.

"Ok. Allora... Perché mi vuole vedere?"

Paolo smette di lavare le tazze e si gira verso di me asciugandosi

le mani su uno straccio. È entusiasta.

"Non dovrei dirtelo perché è una sorpresa."

Si accorge che mi sto incazzando.

"Però te lo dico perché mi fa piacere. Credo ti abbia trovato

un lavoro! Sei felice?"

"Moltissimo."

Però, sono migliorato. Riesco a fingere bene anche davanti a

una domanda così.

"Allora che ne dici?"

"Che se continuo a chiacchierare con te faccio tardi."

Vado a prepararmi.

Sei felice? La domanda più difficile. "Per essere felici," dice

Karen Büxen, "ci vuole coraggio." Sei felice... Una domanda così

poteva farla solo mio fratello.

Capitolo 13.

Dieci meno un minuto. Guardo il mio cognome scritto sul

campanello.

Ma è casa di mio padre. È scritto a penna in modo irregolare,

senza fantasia, senza calore, allegria neanche a parlarne. In

America non sarebbe passato. Ma cosa importa. Siamo a Roma, in

una piccola piazza a corso Trieste, vicino a un negozio che vende

roba di finta classe. La accatasta in vetrina al prezzo di 29,90

euro.

Come se un coglione qualsiasi non capisse che avere quella roba

da schifo equivale ai suoi 30 euro. Animo da commercianti, finti

furbi e un sorriso obbligato. Suono.

"Chi è?"

"Ciao papà, sono io."

"Sei puntuale. L'America ti ha cambiato." Ride.

Vorrei tornarmene a casa, ma ormai sono qui: "A che piano

stai?".

"Al secondo."

Secondo piano. Entro e mi chiudo il cancello alle spalle. Che

strano,

il secondo piano non mi è mai piaciuto. L'ho sempre considerato

una via di mezzo tra l'attico e il giardino, un posto al buio per

chi

sopravvive. Spingo il due. Il discorso vale anche per l'ascensore.

Un

tragitto corto a metà. Inutile per chi vuole fare un po' di sport,

scomodo

comunque per chi non ce la fa. Papà è sulla porta che mi aspetta:

"Ciao". È emozionato e mi stringe forte. Un po' a lungo, troppo

a lungo. Mi viene un piccolo nodo alla gola ma lo prendo a calci.

Non ci voglio pensare. Mi dà un cazzotto leggero sulle spalle:

"Allora...

come va?".

"Benissimo." I calci sono serviti. Parlo normalmente: "E tu?

Come stai?".

"Bene. Che te ne sembra di questa casetta? Mi sono spostato

da sei mesi ormai e mi ci trovo bene, l'ho arredata io."

Vorrei dire "e si vede", ma lascio stare. Non che me ne freghi

niente.

"Poi è comoda, non è tanto grande, sarà un'ottantina di metri

quadri, ma per me va benissimo, ci sto quasi sempre da solo."

Mi guarda. Crede o spera che quel "quasi sempre" porti da

qualche parte. Invece no. Se è per me... Giace lì, insabbiato.

Sorride

inutilmente, poi riprende: "Ho trovato quest'occasione e l'ho

presa, poi la sai una cosa? ho sempre pensato che un secondo piano

non mi piacesse invece è meglio, è più... coibentata".

Spero che non mi chieda cosa significhi. L'avrò sentito migliaia

di volte. È uno di quei termini che odio.

"E poi è più comoda, più tranquilla."

Troppi aggettivi sono quasi sempre per giustificare una scelta

sbagliata.

Mi ricorda una frase di Sacha Guitry: "Ci sono persone che

parlano,

parlano... finché non trovano qualcosa da dire".

"Sì, sono d'accordo con te." Magari lo fosse sulla citazione, ma

non può. L'ho solo pensata. Non gliela dirò.

Mi sorride.

"Allora?"

Lo guardo sconfortato. Allora? Cosa vuol dire la domanda

"allora?".

Mi ricordo che quando stavo in classe al liceo c'era Ciro

Monini, quello del primo banco, che diceva sempre: "Allora?

Allora?".

E Innamorato, quello dietro a lui, rispondeva sempre: "Allora?

Sessanta minuti!". E rideva. E la cosa terribile è che rideva

anche l'altro. Andavano avanti così quasi ogni giorno. Non so se

si

vedono ancora. Ma temo che facciano lo stesso gioco magari con

qualcun altro... Allora? Allora io voglio bene a mio padre. Cazzo,

sto male e scomodo in questa poltrona. Ma mi sforzo. "Non sai

quanto sono stato bene a New York, benissimo."

"C'era gente?" Lo guardo. "Dico, italiani." Per un attimo mi

ero preoccupato.

"Sì, molti, ma tutta gente diversa da quella che uno è abituato

a incontrare qui."

"In che senso diversa?"

"Ma, non lo so. Più intelligenti, più attenti. Dicono tutti meno

cazzate. Girano, parlano senza problemi, si raccontano..."

"Che vuol dire si raccontano?"

Se almeno fossimo a cena. A tavola perdonerei chiunque. Anche

i miei parenti. Chi l'ha detto? Ero al liceo e mi ha fatto ridere.

Forse Oscar Wilde. Non credo di farcela. Ma ci provo.

"Che non si nascondono. Affrontano la loro vita. E poi...

ammettono

le loro difficoltà. Non a caso hanno quasi tutti uno

psicanalista."


Mi guarda preoccupato: "Ma perché, tu ci sei andato?".

Mio padre, sempre la domanda sbagliata al momento giusto.

Lo tranquillizzo. "No papà, non ci sono andato." Vorrei aggiungere

"Ma forse avrei dovuto. Forse quello psicanalista americano

avrebbe capito i miei problemi italiani". O forse no. Vorrei

dirglielo, ma lascio stare. Non so quanto dureremo. Cerco di

semplificare.


"Io non sono americano. E noi italiani siamo troppo orgogliosi

per ammettere di aver bisogno di qualcuno. "

Rimane in silenzio. Si preoccupa. Mi dispiace. Allora cerco di


aiutarlo, di non fargli credere che abbia lui qualche colpa.

"E poi scusa che facevo, buttavo i miei soldi? Andare da uno

psicanalista e non capire quello che ti dice in inglese... allora

sì che

hai problemi di testa! " Ride.

"Ho preferito spenderli in un corso di lingue, almeno li ho

buttati,

ma senza sperare di stare meglio! "

Ride di nuovo. Ma mi sembra che si sforzi. Chissà cosa vorrebbe

che gli dicessi.

"Comunque, a volte non siamo capaci di raccontare i nostri

problemi neanche a noi stessi."

Diventa serio.

"Questo è vero."

"È la stessa ragione per la quale ho letto che sono sempre meno

quelli che in chiesa si confessano."

"Già..."

Non ne è convinto. "Ma dove l'hai letta?"

Come sospettavo. "Non me lo ricordo."