"Allora torniamo a noi."

Perché dove eravamo andati? Torniamo a noi... Che modo di

dire. Sto male. Sto scomodo. Mio padre. Mi sto innervosendo.

"Ti ha detto niente Paolo?"

"Di cosa?" Mentire al padre. Io non rientro in quell'articolo

sulla confessione. Non vado in chiesa. Non più. "No, non mi ha

detto niente."

"Be'..." Mi sorride superentusiasta. "Ti ho trovato un lavoro."

Cerco di fingere alla meglio: "Grazie". Sorrido. Dovrei fare

l'attore.


"Potrei sapere di che si tratta?"

"Ma certo. Che sciocco. Allora, ho pensato, visto che sei stato

a New York e hai fatto un corso di computer grafica e di

fotografia,

giusto?"

Andiamo bene. Non è sicuro neanche lui su cosa ha fatto suo

figlio a New York. E dire che la scuola la pagava proprio lui ogni

mese.

"Sì, giusto."


"Ecco, l'ideale era che ti trovassi qualcosa che ha a che fare con

quello che hai studiato. E l'ho trovato! Ti hanno preso in un

programma

televisivo come addetto alla computer grafie e alle immagini!"


Lo dice con un tono che sembra la traduzione italiana dell'oscar

americano: And the winner is... il vincitore è... sono io?

"Be', naturalmente sarai l'assistente, cioè la persona che segue

chi fa tutti i disegni grafici al computer e cura le varie

immagini,

credo."

Quindi non sono il vincitore. Solo un secondo classificato.

"Grazie papà, mi sembra un'ottima cosa."

"O qualcosa del genere, insomma, non so spiegarti."

Approssimativo come sempre. Impreciso. Vicino alla verità o

qualcosa del genere. Mio padre. Ma ha mai capito sul serio quello

che è successo con mamma? Credo di no. A volte mi domando cosa

c'è di lui in me. Mi immagino la scopata che mi ha generato. Lo

guardo, lui sopra la mamma. Mi viene da ridere. Se sapesse cosa

sto

pensando. Suona il citofono. "Ah, deve essere per me." Si alza

frettoloso,

leggermente imbarazzato. E certo, per chi può essere? Io non

abito più qui, come Alice. Papà ritorna ma non si siede. Rimane lì

in

piedi, muove le mani in modo nervoso: "Sai, non so come dire, ma

c'è una persona che vorrei farti conoscere. È strano dirlo al

proprio

figlio, ma diciamo che siamo fra uomini, no? È una donna". Ride

per

sdrammatizzare. Non voglio rendergliela difficile.

"Certo papà, che problema c'è... siamo tra uomini."

Resto in silenzio. Rimane lì in piedi a guardarmi. Non so che

dire.

Vedo che evita il mio sguardo. Suonano alla porta e va ad aprire.

"Ecco, lei è Monica."

E bella. Non tanto alta, troppo truccata. Ha un profumo forte,

un vestito di media eleganza, i capelli troppo bombati, sulle

labbra

troppa matita. Sorride, i denti non sono un granché. Non è poi

così bella. Mi alzo in piedi come mi ha insegnato mia madre e ci

stringiamo la mano.

"Piacere."

"Mi ha tanto parlato di te, sei tornato da poco vero?"

"Ieri."

"Come sei stato fuori?"

"Bene, molto bene."

Si siede tranquilla e accavalla le gambe. Gambe lunghe, molto

belle, scarpe leggermente consumate, un po' troppo. Dalle scarpe,

ho letto, si riconosce la vera eleganza di una persona. Leggo un

sacco

di cose ma non mi ricordo mai dove. Ah sì, era "Class",

sull'aereo.

Era un'intervista a un buttafuori. Diceva che dalle scarpe decide

sempre se far entrare una persona nel suo locale o no. Lei sarebbe

rimasta fuori.

"E quanto tempo sei stato a New York?"

"Due anni."

"Tanto" sorride guardando mio padre.

"Ma sono passati così, senza problemi."

Spero non faccia altre domande. Forse lo capisce. E si ferma.

Tira fuori dalla borsa un pacchetto di sigarette. Diana blu. Anche

su questo il buttafuori sarebbe rimasto indeciso. Poi se ne

accende

una con un Bic colorato e dopo aver dato la prima tirata si guarda

in giro. Lo fa solo per far capire, non cerca niente in realtà.

"Ecco, Monica" si precipita vicino a lei mio padre con un

portacenere

preso al volo da un comò lì dietro.

"Grazie" tenta di far cadere della cenere nel portacenere. Ma

è ancora troppo presto. Sulla sigaretta c'è stampata mezza sua

bocca

sotto forma di rossetto rosso, con tutte le sue zigrinature. Odio

il rossetto sulla sigaretta.

"Be', io vado, arrivederci."

"Ciao Stefano, mi ha fatto piacere conoscerti" sorride un po'

troppo. E mi segue mentre mi allontano.

"Aspetta, ti accompagno."

Vado con mio padre verso la porta.

"Ci conosciamo da qualche mese. Sai, in fondo sono quattro

anni che non uscivo con una donna." Ride. Ogni volta che deve far

passare qualcosa che gli sembra difficile, ride. Ma che cazzo

c'avrà

da ridere? E poi si giustifica troppo. Sembra sempre che cerchi di

convincere se stesso delle scelte che fa. Comunque non me ne frega

niente. Non vedo l'ora di farla finita.

"Sai, è simpatica..."

Mi racconta qualcosa di lei. Ma non lo sto a sentire. Vedo che

parla, parla, parla. Ma penso ad altro. Mi ricordo che ero piccolo

e mia madre scherzava con lui in camera da pranzo. Poi ha

cominciato

a correre e lui subito dietro nel corridoio, inseguendola

fino alla porta della camera da letto e io correvo dietro a papà e

gridavo:

"Sì, prendiamola, catturiamola!". Poi hanno lottato un po'

sulla porta. Mamma rideva e si voleva chiudere dentro e lui invece


cercava di entrare. Alla fine mamma ha lasciato andare la porta

ed è corsa verso il bagno. Ma lui l'ha raggiunta e l'ha buttata

sul

letto e papà rideva perché lei ha iniziato a fargli il solletico.

Ridevo

anch'io quel giorno. Poi è arrivato Paolo. Allora mamma e papà

ci hanno fatto uscire dalla stanza. Hanno detto che dovevano

parlare

ma ridevano mentre lo dicevano. Allora io e Paolo siamo andati

in camera nostra a giocare. Poi, un po' più tardi anche loro

due sono venuti da noi. Ma chiacchieravano piano, lenti, erano

come

morbidi in viso. Li ricordo con una luce diversa, come se fossero

luminosi. Perfino nei capelli, negli occhi, nel sorriso. E si sono

messi a giocare con noi e mamma mi abbracciava e rideva e mi

pettinava sempre i capelli. Me li mandava indietro, un po' con

forza,

per scoprire il viso. Mi dava fastidio ma glielo lasciavo fare.

Perché

le piaceva. E perché era la mia mamma.

"Scusa papà, ma devo proprio scappare..." Tronco chissà quale

discorso.

"Ma mi hai sentito? Hai capito allora? Alle due da Vanni. Ti

aspetta

il signor Romani per il programma." Stava parlando di questo.

"Sì, certo, ho capito. Il signor Romani alle due da Vanni. "

Sbuffo.

"Scusami, eh?"

Poi scendo veloce per le scale, non mi fermo a guardare indietro.

Poco dopo sono sulla moto. Ho fretta di allontanarmi. Ho voglia

di andare lontano. Cambio le marce e la velocità, non so perché,

mi piace più del solito.

Capitolo 14.

Babi, che fine hai fatto? Una bella canzone diceva che è facile

incontrarsi anche in una grande città. Sono giorni che giro. Non

volendo, la cerco. Mi ha preso in giro quella canzone. Non c'è

traccia

di lei. Senza accorgermene, mi ritrovo sotto casa sua. Fiore, il

portiere, non c'è. C'è la sbarra abbassata. Un nuovo negozio di

vestiti

lì vicino, dove prima c'era un'autorimessa. Perfino Lazzareschi

non c'è più. C'è un nuovo ristorante, Jacini. Elegante, tutto

bianco.

È come se qualcuno volesse quasi costringerci a migliorare. Ma

io resto così, come sono, con il mio giubbotto Levi's un po'

strappato

e la moto con le marmitte allentate.

"Ehi, ma tu non sei Step?"

Mi giro e non ci credo. E mo', chi è questa qua? Sono seduto

sulla moto davanti al giornalaio quando mi si avvicina questa

strana

"sgnappetta" castana chiara, con la faccia divertente, da

impunita,

le mani sui fianchi come se non avessi capito.

"Allora? Sei tu o no?"

"Ma tu chi sei?"

"Mi chiamo Martina, abito qui agli Stellari. Potresti rispondere?"

"Perché me lo chiedi?"

"E tu rispondi... che, hai paura?"

Mi fa quasi ridere, è forte. Avrà sì e no undici anni.

"Sì, sono io Step."

"Veramente sei Step? Non ci credo. Non ci credo. Non ci posso

credere... Non ci credo."

La guardo divertito. Sono io che non riesco a crederci.

"Allora?"

"Tu forse non ti ricordi di me, sarà stato due anni fa, ero sulle

scalette del comprensorio con due mie amiche e stavo mangiando

la pizza rossa e tu salivi di corsa e hai detto 'Mmmh, mi sembra

buona quella pizza' e io non ti ho risposto, ma ho pensato un

sacco

di cose, e te l'avrei fatta assaggiare! "

"Forse avevo fame..."

"No, ma questo non c'entra."

"Non ci sto capendo più niente."

"No, ti volevo dire che per me, anzi per noi, c'è una cosa

pazzesca

che tu hai fatto. Ne parliamo sempre con le mie amiche, ti

giuro, quella scritta sul ponte di corso Francia... Io e te... Tre

metri

sopra il cielo. Mamma, lo pensiamo sempre. Ma come ti è venuto

in mente? Cioè, ma veramente l'hai fatta tu?"

Non so cosa rispondere, ma non importa. Tanto non me ne dà

neanche il tempo.

"Cioè, per me quella è la scritta più bella del mondo. Quando

mamma mi accompagnava a scuola la guardavo. Ma poi lo sai che

qualcun altro ha fatto quella stessa scritta? Cioè, ti hanno

copiato!

C'è quella scritta anche in altri posti di Roma, ti giuro, è

pazzesco,

sta in un sacco di posti! E una mia amica quest'estate al mare mi

ha detto che l'ha vista anche nella sua città! "

"Veramente non volevo lanciare una moda."

Immagino per un attimo se ora passassero i miei amici, quelli

di un tempo e mi vedessero stare qui intrattenuto da questa specie

di "sgnappetta"... Eppure mi piace.

"Be', comunque è pazzesco, noi tutte sogniamo un ragazzo che

faccia una scritta così per noi. Ma mica è facile trovare un tipo

così! "

Mi guarda e sorride. Mi ha fatto un complimento secondo lei.

"Ecco, lo vedi quello lì..."

Mi indica, senza farsi vedere troppo, un ragazzino vicino

all'uscita

del comprensorio. È seduto sulla catena che va da un pilastro

all'altro. Si dondola dandosi una spinta con le sue grosse scarpe

da

ginnastica. Ha i capelli lunghi, una specie di codino con un

nastro

colorato alla fine, ed è un po' cicciotto.

"Si chiama Thomas, mi piace un casino e lo sa." Il tipo la vede.

Sorride da lontano. Alza il mento come per salutarla. Sembra

anche incuriosito che Martina parli con un ragazzo più grande.

"Sì, secondo me lo sa. Fa apposta il cretino con le mie amiche,

e mi dà un fastidio! Se becco chi gliel'ha detto... Ma fino a

quando

non sono sicura... Ma a quello lì quando gli verrebbe in mente

una scritta bella come la tua, eh?"

Guardo Martina e penso a tutto quello che ha ancora da vivere.

Alla bellezza del suo primo amore, di quello che sarà, di quello

che non pensi mai possa finire.

"Al massimo fa una scritta da deficiente per la sua squadra. E

poi la sai una cosa? Questa te la devo proprio raccontare. Una

volta

mio padre e mia madre, che stanno insieme da un sacco di tempo,

almeno da poco prima che nascessi io, be' un giorno stavano

litigando

come pazzi per casa, io stavo in camera mia e li sentivo

benissimo,