Sei cresciuto. Bevo un po' d'acqua. "Allora, so che stai

lavorando...

sei felice?" Felice? Detta da lei questa parola mi fa venire da

ridere. Ma non lo faccio. Rispondo qualcosa così come alle altre

sue domande. "Come sei stato in America? Hai avuto problemi?

Ci sono molti italiani? Pensi di tornarci?" Rispondo. Rispondo a

tutto più o meno bene credo, cercando di sorridere, di essere

gentile.

Proprio come mi aveva insegnato lei. Gentile.

"Guarda, ti ho portato questi."

E tira fuori qualcosa da una borsa, non quella che le avevo

regalato

io quella volta a Natale o per il suo compleanno, quand'era

non mi ricordo. Ma mi ricordo che quella borsa la trovai lì, sulla

poltrona di quella casa. In salotto... il letto di un altro che

ospitava

lei, la mia mamma. Ospitava. Ospitava. Ospitava. Basta Step.

Smettila, smettila.

"Li riconosci? Sono i morselletti che ti piacevano tanto."

Sì. Mi piacevano tanto. Mi piaceva tutto di te, mamma. E ora

per la prima volta, dopo averla più volte guardata, la vedo di

nuovo.

Mia madre. Sorride con questa piccola busta trasparente tra le

mani. La posa leggera sul tavolo e mi sorride di nuovo piegando la

testa di lato. Mia madre. Ha i capelli più chiari ora. Anche la

pelle

sembra più chiara. Lei, delicata come sempre, sembra ancora più

fragile. Dimagrita. Ecco, sembra dimagrita e la pelle leggermente

increspata da un vento leggero. E gli occhi. I suoi occhi un po'

appannati

è come se avessero un po' di luce in meno. È come se qualcuno,

cattivo con me, avesse girato di poco quell'interruttore tenendo

in penombra il nostro amore. Il mio amore. Bevo un altro

po' d'acqua.

"Sì, me li ricordo. Mi piacevano tantissimo."

E uso il passato senza volerlo, senza sapere, con la paura che

perfino quei semplici biscotti abbiano perso quel sapore che mi

piaceva tanto.

"Hai aperto il mio regalo?"

"No, mamma." Non riesco a mentirle. Ancora adesso non riesco

a dirle una bugia. E non è solo la paura di essere scoperto... Mi

viene in mente Gin e la storia degli occhi. Per un attimo mi viene

da sorridere. Ed è un bene.

"No, mamma, non l'ho fatto,"

"Non è educato, lo sai."

Ma non aspetta la mia richiesta di perdono, non ce n'è bisogno.

Il suo sorriso mi fa capire che è tutto a posto, è già passato, e

lei non me lo fa pesare.

"E un libro e vorrei tanto che tu lo leggessi. Ce l'hai qui?"

"Sì."

"Allora prendilo."

E le sue parole sono così cortesi che non riesco a non alzarmi,

andare in camera mia e tornare subito dopo con quel pacchetto,

poggiarlo sul tavolo e scartarlo. "Ecco. È di Irwin Shaw.

Lucy Crown. È una storia molto bella. Mi è capitato per caso

sottomano.

E mi ha colpito molto. Se hai tempo, vorrei che tu lo leggessi."


"Sì, mamma. Se ho tempo lo farò."

Rimaniamo per un po' in silenzio e, anche se è solo un attimo,

mi sembra lunghissimo. Abbasso lo sguardo, ma anche la copertina

del libro non mi aiuta a far passare quell'infinità. Piego la

carta

del regalo, ma anche quello non fa che aumentare il peso dei

secondi

che sembrano non passare mai. Mia madre sorride. Mi aiuta

lei finalmente a superare quella piccola eternità.

"Anche mia mamma piegava sempre la carta dei regali che riceveva.

Tua nonna." Ride. "Forse hai preso da lei." Si alza. "Be',

io vado..."

Mi alzo anch'io. "Ti accompagno."

"No... non ti disturbare."

Mi dà un bacio leggero sulla guancia, poi sorride.

"Ce la faccio. Ho la macchina qua sotto."

Va verso la porta ed esce di spalle, senza più girarsi. Mi sembra

stanca e io mi sento sfinito. E non trovo più tutta quella forza

che mi

è sempre sembrato di avere. Quel bacio, forse, non era così

leggero.

Capitolo 57.

Poco più tardi.

"Oh, stavo proprio pensando a te... siamo simbiotici! Sul serio

ti stavo per telefonare! " Gin è disarmante sempre così allegra.

"Dove sei?"

"Qui sotto. Mi apri?"

"Ma ho appena finito di mangiare, c'è ancora mio zio. E poi

che fai, vuoi venire a casa, presentarti ai miei, approfittare che

c'è

anche mio zio per chiedermi qualcosa?" Ride allegra.

"Dai Gin, inventati qualcosa. Che ne so... che devi ritirare il

bucato su in terrazzo, che devi andare a prendere qualcosa dalla

tua amica al piano di sopra, che devi fuggire con me, di' anche

questo

se vuoi, ma liberati... Ho voglia di te."

"Non hai detto ho voglia di vederti, hai proprio detto 'ho voglia

di te'?"

"Sì, e confermo!" Mi sembra di essere uno dei partecipanti a

quegli stupidi quiz. Spero di non aver sbagliato la risposta. Gin

fa

una pausa lunga. Troppo lunga. Forse ho sbagliato la domanda.

"Anch'io ho voglia di te."

Non aggiunge altro e sento aprire il portone. Non prendo

l'ascensore.

Salgo su le scale veloce come un fulmine fino all'ultimo

piano, senza fermarmi, a volte addirittura a quattro a quattro. E

quando arrivo si apre l'ascensore. È lei. Simbiotici anche in

questo.

Mi tuffo sulle sue labbra e cerco lì il mio respiro. Baciandola

senza tregua, non facendola respirare. Le rubo la forza, il

sapore,

le labbra, le rubo anche le parole. In silenzio. Un silenzio fatto

di

sospiri, della sua camicetta che si apre, del gancio del suo

reggiseno

che salta, dei nostri pantaloni che scendono, della ringhiera che

si muove, di lei che ride facendo "Shh" per non farci sentire, di

lei

che sospira per non farmi venire. Non subito almeno. E strane

posizioni

in quella trappola di gambe, in quel groviglio jeansato che

mi eccita di più, che mi affascina, che mi fa morire. Smettere per

un attimo e in ginocchio, sul freddo marmo del pianerottolo,

baciarla

tra le gambe. Lei Gin, cowgirl stranamente scomposta, mima

un rodeo tutto suo per non cadere dalle mie labbra. Per poi

cavalcarla

di nuovo e correre insieme, noi stupidi, selvaggi, appassionati,

cavalli innamorati tenuti a terra da una ringhiera di ferro.

Vibra in silenzio come la nostra passione. Per un attimo sospesi

nel

vuoto. Rumori lontani. Rumori delle case. Una goccia che cade. Un

armadio che si chiude. Dei passi. Poi più niente. Noi. Solo noi.

La

sua testa indietro, i suoi capelli sciolti, abbandonati in caduta

nella

tromba delle scale. Si muovono frenetici, quasi vorrebbero

saltare,

come il nostro desiderio. Ma un ultimo bacio ci fa venire giù

insieme, tornare a terra proprio mentre l'ascensore viene

chiamato.

"Shh" lei ride accasciandosi per terra. Quasi stremata, sudata,

bagnata e non solo di sudore. Con i capelli che si attaccano al

viso

e ridono con lei. Ci abbracciamo così uniti, pugili suonati,

spompati,

sfiniti, accovacciati a terra, vinti. Nell'attesa di un inutile

verdetto:

pari ai punti... Sorridendo ci baciamo. "Shh" fa ancora lei.

"Shh." Si bea di quel silenzio... Shh. L'ascensore si ferma a un

piano

più sotto. I nostri cuori battono veloci e non certo per paura.

Mi nascondo tra i suoi capelli. Mi appoggio al suo morbido collo.

Mi riposo tranquillo. Le mie labbra stanche, felici, soddisfatte

in

cerca solo di un'ultima risposta.

Gin...

"Sì?"

"Non mi lasciare."

E non so perché. Ma lo dico. E quasi mi pento. E lei rimane

per un po' in silenzio. Poi si scosta da me. E mi osserva curiosa.

Poi

lo dice piano, quasi sussurrandolo.

"Hai buttato la chiave del lucchetto nel fiume."

Poi morbida tiene la mia testa tra le mani e mi guarda. Non è

una domanda. Non è una risposta. Poi mi dà un bacio e un altro e

un altro ancora. E non dice più niente. Mi continua solo a

baciare.

E io sorrido. E accetto volentieri quella risposta.

Capitolo 58.

Un pomeriggio caldo, stranamente caldo per essere dicembre.

Il cielo azzurro, intenso come quelle giornate in montagna dove

non vedi l'ora di sciare. Solo che io devo lavorare. Sono entrato

nell'imbuto

come dice Pallina, ma è l'ultima puntata o meglio l'ultimo

giorno di prove prima dell'ultima puntata. Eppure mi sembra

un giorno particolare. Sento qualcosa di strano e non capisco

perché.

Sesto senso forse. Ma non avrei mai potuto immaginare.

"Buongiorno Tony..."

"'Giorno Step."

Entro frettolosamente nel teatro. Un gruppo di fotografi più o

meno scalcagnati, dalle macchine fotografiche più diverse così

come

i loro vestiti, mi taglia la strada. Non sono certo come quei

precisi

gruppi di giapponesi che si incontrano per le piazze di Roma.

A loro non sfugge nessuna immagine.

"Di là, è andata di là... presto, che la becchiamo."

Rimango interdetto e Tony questo, naturalmente, non se lo fa

scappare.

"Stanno a insegui' la Schiffer. È arrivata prima perché deve

prova'

l'entrata dal palcoscenico. Che poi che c'avrà da prova', è una

camminata, manco ci so' le scale. Che deve prova', è una vita che

cammina. Boh! Forse è pe' giustifica' i soldi che prende, mortacci

sua.

E già che c'è Tony aggiunge: " Aho, se cerchi Gin è andata su

proprio

nel camerino vicino alla Schiffer. L'ha chiamata uno degli autori.

Magari la fa entra' con la Schiffer. Metti che impara a cammina'

bene pure lei, sai i soldi che se fa. Altro che camminate...

vannate a

fa' subito il giro del mondo. Viaggi gratis pure te e con

l'autista."

Tony. Ride un po' sguaiato inciampando in una strana tosse tutta

fumo e niente salute. Ciò nonostante si accende al volo un'altra

MS, buttando via il pacchetto finito. Era quello che gli avevo

portato

ieri o uno nuovo? Cosa importa. Ah, se non importa a lui. Be',

meglio che vado a vedere come sta Marcantonio e come va il nostro

lavoro. Quello, se non altro per contratto, mi dovrebbe

interessare.

Eccolo là. Seduto al computer, concentrato. Lo guardo da

lontano attraverso la porta semiaperta. Poi sorride tra sé, spinge

un

tasto, dà l'invio alla stampa e soddisfatto si accende una

sigaretta

giusto in tempo per vedermi arrivare.

"Ehi, Step, ne vuoi una?" Be', almeno lui a differenza di Tony

la offre e non sembra star poi così male.

"No grazie."

Richiude il pacchetto. "Meglio così! " Se lo infila nella tasca

del

suo giubbotto e si alliscia i pochi capelli che ha ai lati della

testa

portandoli all'indietro. "Ce l'ho fatta... Sono riuscito a

impostare

tutto proprio come volevano."

"Ah, bene." Mi accorgo che evita volutamente di dire come volevano

gli autori, ma non è il caso di farglielo notare. Se non altro

perché mi ha offerto la sigaretta. Rimaniamo per un attimo in

silenzio

a guardare i fogli che escono dalla stampante. Vrrr. Vrrr. Uno

dopo l'altro. Precisi, puliti, ordinati. Colori chiari e leggeri,

perfettamente

leggibili, proprio come volevano, immagino. Marcantonio

aspetta l'uscita dell'ultimo foglio, poi li prende delicatamente

dalla macchina e ci soffia sopra leggero per far asciugare

quell'ultimo

inchiostro appena stampato.

"Ecco fatto. Mi sembrano perfetti."

Mi guarda cercando approvazione. "Sì, credo di sì."

Non è che non ne sono poi tanto sicuro. Il lancio di quei fogli

in faccia a Marcantonio mi ha tolto completamente qual era la