apre piano il portone, lo richiude sempre senza far rumore. Poi

la porta di casa, piano piano, lentamente, piegando la maniglia

della porta interna con dolcezza, per non far rumore. Ma lo scatto

finale lo tradisce.

"Papà, sei tu? " Daniela compare dal salotto. "Ciao! Ti ho

aspettato

in piedi perché sono felicissima! Ho fatto gli esami, mi hanno

dato oggi tutte le risposte. Il bambino sta bene e soprattutto non

ho l'Aids!"

Ma Claudio non fa in tempo a esserne felice. Dal buio della cucina

;

gli si scaraventa addosso Raffaella, lo aggredisce da dietro,

montandogli quasi a cavalcioni, urlando, graffiandogli con le

unghie

le guance, accecandolo, strappandogli i capelli, mordendogli

le orecchie. Raffaella è una specie di arpia, uno strano volatile

urlante

aggrappato sulla sua schiena. Ha le gambe strette intorno alla

sua vita e non lo molla. Claudio comincia a urlare pure lui dal

dolore e corre come un pazzo per il corridoio, sotto gli occhi

esterrefatti

di Daniela che non sa assolutamente nulla e che pensava di

poter dividere coi genitori la sua felicità. Claudio, arrivato

alla fine

del corridoio, si gira di botto e si lancia con una spallata

dentro

al grande armadio, sfondandolo con tutta l'arpia sulle spalle.

Finisce

sotto cappotti, pellicce e altri abiti che cadono dalle

rastrelliere.

In mezzo a quell'odore di naftalina, alle scatole di scarpe, ai

tanti

regali di feste passate ormai andate perdute. Claudio si riesce a

liberare da Raffaella, si tira fuori dall'armadio e corre in

camera

sua. In quel momento esce Babi dalla sua stanza.

"Ma che succede? Che, ci sono i ladri?" Poi vede il padre in

faccia,

tutto insanguinato. "Ma che ti è successo? Che ti hanno fatto?"

In quel momento arriva Raffaella.

"Che gli hanno fatto? Che ci ha fatto! Erano mesi che scopava

con una brasiliana in un albergo alla stazione ! " e così dicendo

strappa

via dall'armadio, distrutto, un pezzo di anta e cerca di colpire

Claudio che si chiude in camera. Tira fuori la sua valigia. Poi

apre

l'armadio ma non crede ai suoi occhi: tutte le camicie, le

giacche,

i pantaloni, i maglioni e tutti i completi sono strappati,

tagliati, lacerati.

Una specie di grande, immenso armadio di coriandoli di

classe. Claudio allora prende l'unica cosa che gli è rimasta. Apre

la

porta ed esce dalla stanza. Babi gli corre incontro.

"Papà, ma dove vai?"

"Me ne vado. M'avete rotto i coglioni tutti. Non capite quando

una persona ha bisogno di libertà..."

Raffaella gli piomba da dietro e lo colpisce alle spalle, tra

collo

e nuca, col pezzo dell'anta dell'armadio. Ma Claudio è più veloce

e ci mette in mezzo il libro di Gozzano, Poesie. E poi dicono

che la letteratura non aiuta. Così corre via, attraversa il

corridoio e

fa per uscire di casa. Ma Babi lo raggiunge sulla porta.

"Papà, ma a me chi mi accompagnerà all'altare?"

"Mamma. Ha sempre deciso tutto lei. Che si occupi pure di

quest'ultima rottura di coglioni!"

E così dicendo si libera anche di lei. E scende di corsa le scale.

Pffiuu. Claudio tira un sospiro di sollievo. Pensavo peggio.

Scende

le scalette del portone quando improvvisamente gli piomba addosso

un'altra persona.

"Ah!" Claudio si mette in posizione di difesa. Ma è Alfredo,

l'ex di Babi, completamente ubriaco con una bottiglia in mano.

"Signor Gervasi, lei mi deve aiutare, guardi come sto! Non può

far sposare Babi con questo Lillo solo perché guadagna più di me

e come? Vendendo mutande! Ma non se ne vergogna? E tutta la

nostra amicizia? I giorni passati a tavola? Dove li mette, eh?

Dove

li mette? Lei se ne pentirà! Ha capito?"

Claudio lo guarda e sorride sfinito.

"Non sono riuscito a salvare il mio matrimonio, figurati se mi

devo preoccupare di quello degli altri."

"Ah sì? Allora ora le faccio vedere io! " Alfredo avanza. Agita

minaccioso la birra, facendola roteare e andandogli contro.

Claudio

non ha più dubbi. Gli sferra un calcio in mezzo ai coglioni.

Alfredo

si accascia a terra e si piega su se stesso, dolorante. Claudio

dà un calcio alla birra, mandandola lontana.

"Non ho avuto problemi con Step, figuriamoci se mi preoccupa

uno come te!"

E se ne va via felice, guardando le stelle, sognando la nuova vita

che lo aspetta e un po' preoccupato per tutti quei vestiti che si

dovrà ricomprare.

Capitolo 71.

"Sì, pronto?"

"Ehi, ma che fine hai fatto ieri sera? Ti ho chiamato un sacco,

ma prima non prendeva, poi dava staccato."

Gin. Mi sento morire. Perché ho risposto al telefonino?

"Eh sì... siamo andati con Guido a mangiare in un locale, ma

non mi ero accorto che lì non prendeva. Era sotto."

Non so più che dire. Mi viene da vomitare. E lei, cosa assurda,

mi salva.

"Sì, sottoterra. Ho provato un po', poi mi sono addormentata.

Oggi non ci possiamo vedere. Che pizza ! Devo accompagnare mia

madre da una zia fuori Roma. Ci sentiamo dopo? Io non lo stacco,

eh? Dai scherzo! Un bacio bello e dopo, quando sei sveglio, uno

ancora più bello!"

E chiude. Gin. Gin. Gin. Con la sua allegria, Gin con la sua

voglia

di vivere. Gin con la sua bellezza. Gin con la sua purezza. Mi

sento una merda. Sto di merda. Vuoi il rum, vuoi tutto il resto.

Mamma quanto ho bevuto. Quanto avevo bevuto può essere preso

come giustificazione? Non è sufficiente. Ero capace di intendere

e di volere. Di dire di no fin dall'inizio, di non andare con lei,

di

non mettermi la sciarpa, di non baciarla. Colpevole! Senza ombra

di dubbio. Ma un'ombra ce l'ho. E se avessi sognato? Scendo giù

dal letto. Quei vestiti poggiati sulla sedia ancora bagnati di

pioggia,

quelle scarpe ancora sporche di fango non lasciano più dubbi.

Altro che sogno. È un incubo. Colpevole. Colpevole oltre ogni

ragionevole

dubbio. Cerco nella testa una frase, parole a cui aggrapparmi.

Perché attorno a me non trovo nulla? Mi viene in mente

qualcosa che mi disse una volta il prof di Filosofia: "Il debole

dubita

prima della decisione; il forte dopo". Mi pare fosse di Kraus.

Quindi secondo lui io sarei forte. Eppure mi sento così stupido e

debole. E così stupido artefice di questa mia condanna mi trascino

in cucina. Un po' di caffè mi aiuterà. Passerà un giorno e poi un

altro e poi un altro ancora. E poi tutto questo sarà lontano, sarà

del

passato. Mi verso del caffè già pronto. È ancora caldo. Deve

averlo

lasciato Paolo prima di uscire. Mi siedo al tavolo. Ne bevo un

po', mangio un biscotto. Poi vedo un biglietto. La scrittura la

riconosco.

È di Paolo. Perfetta e ordinata come sempre. Questa volta

però mi sembra solo un po' traballante. Forse era stanco e lo ha

scritto di corsa. Lo leggo. "Sono andato con papà all'ospedale

Umberto

I. Mamma è stata ricoverata lì. Vieni presto per favore." Ora

capisco la scrittura incerta. Si tratta di mamma. Lascio il caffè

e mi

vado a fare veloce una doccia. Sì, ora mi ricordo. Paolo me ne

aveva

parlato, ma non mi sembrava particolarmente preoccupato. Mi

asciugo, mi vesto e dopo pochi minuti sono già sulla moto. Un po'

di vento in faccia mi fa riprendere subito. Va tutto bene. Va

tutto

bene, Step. È quel "vieni presto per favore" che mi fa stare male.

Capitolo 72.

"Mi scusi, sto cercando la signora Mancini, dovrebbe essere

ricoverata

qui da voi."

Un infermiere svogliato dall'aria annoiata sottolineata da una

sigaretta che penetra dalle sue labbra poggia un "Corriere dello

Sport" aperto su chissà quale acquisto e butta un occhio al

computer

che ha davanti.

"Mancini hai detto?"

"Sì."

Poi mi viene in mente che potrebbe aver usato il cognome da

giovane. Non mi viene da non sposata. Qual era? Ah sì.

"Potrebbe essere anche Scauri."

"Scauri? Sì, eccola qui. Scauri. Secondo piano."

"Grazie."

Faccio per cercare nel reparto. Ma appena supero la sua

postazione,

l'infermiere annoiato sembra essersi svegliato di botto e

mi si para contro. "No, non puoi andare. Le visite sono alle

quindici."


Guarda l'orologio alle mie spalle. "Tra un'ora circa, devi stare

fuori."

"Sì, lo so, ma mia madre..."

"Lo so. Non me ne frega niente di tua madre. Alle quindici vale

per tutti. "

E in un attimo rivedo il biglietto di Paolo. "Vieni presto per

favore."


E poi non ci vedo più. Lo afferro alla gola con la mano destra

e lo spingo con tutto il peso fino a trovare il muro più vicino e

lì lo

spalmo. Mi poggio con la mano aperta sulla sua gola con tutto il

mio peso.

"Devo vedere mia madre. Ora. Subito. Non voglio creare incidenti.

Non mi fermare. Per favore..."


Uso la stessa parola usata da Paolo sperando che possa ottenere

qualche risultato. L'infermiere vuole dire qualcosa. Allento la

presa.

L'infermiere riprende fiato e bofonchia "Secondo piano". Poi

tossisce.

"Letto centoquattordici." Tossisce di nuovo. "Vai pure."

Grazie!

Mi allontano così, velocemente, prima che ci ripensi, prima che

dica o faccia qualcosa di giusto che però, in questo momento, mi

sembrerebbe profondamente sbagliato. Come fermarmi di nuovo.

Troppo profondamente sbagliato. Centoventi, centodiciannove.

Destra e sinistra. Avanzo così tra alcuni letti, tra alcune

persone distese,

tra alcune vite abbandonate sulla soglia di un più o meno felice

baratro. Un vecchio sdentato mi accenna un sorriso. Abbozzo

una risposta ma non mi viene granché. Centosedici. Centoquindici.

Centoquattordici. Eccolo. Quasi ho paura ad avvicinarmi. Mia

madre. La vedo lì, distesa tra le lenzuola, pallida, piccola come

non

mi era mai sembrata. Mia madre. Sembra avere avvertito qualcosa,

un leggero rumore che però non ho fatto. Forse solo un battito

accelerato, quello del mio cuore nel trovarla così. Si gira verso

di

me e sorride. Si aggiusta alzandosi sui gomiti, spostando indietro

la schiena. Ma un dolore improvviso le dipinge il viso facendole

passare quell'idea dalla testa. Si affloscia così, ricadendo sul

cuscino,

guardandomi imbarazzata per quel tentativo fallito. Le corro

subito vicino. La prendo delicatamente da sotto la schiena e la

tiro

piano verso il capezzale. L'aiuto stando bene attento a non urtare

tutti quei fili che penzolano giù con chissà quale medicina,

perdendosi

nelle sue braccia. Il suo viso è attraversato da una smorfia,

dipinto del dolore. Ma è solo un attimo. È passato. Mi sorride

mentre

prendo una sedia libera da un letto lì vicino e mi metto accanto

a lei, al suo capezzale per non farla parlare ad alta voce, per

non

farla stancare, non più.

"Ciao."

Prova a parlare ma io le faccio "Shh" portando l'indice alla

bocca.

Rimaniamo così in silenzio per qualche attimo. Poi sembra stare

meglio.

"Come stai, Stefano?"

È assurdo. Lei che lo domanda a me. Un suo sorriso delicato.

Mi guarda cercando risposta. Provo a parlare ma non mi escono le

parole.

"Bene." Riesco a dire prima che accada. Una parola di poco

più lunga si sarebbe rotta tra le mie labbra, come un fragile