Quelle cose che si devono fare, per formalità, per finto buonismo,
perché non si ha mai il coraggio di essere coerenti fino in fondo,
perché non si sa mai cosa ci aspetta... No. Non ci voglio pensare.
Non oggi. Intorno a me poi tanta altra gente di cui non so neppure
il nome. Parenti lontani, cugini, zii, amici di famiglia, persone
che ricordo solo attraverso foto sbiadite, ricordi confusi di
feste,
di momenti passati, più o meno felici, di sorrisi, di baci e di
altro
ancora, che non so, di chissà quanti anni fa. Un prete ha letto un
brano. Ora sta dicendo qualcosa. Cerca di farmi capire come tutto
quello che sta accadendo è un bene per noi. È un bene per me. Ma
non riesco a seguirlo. No. Non ce la faccio. Il mio dolore è
tanto.
Non riesco a pensare, a capire, ad accettare, a essere
d'accordo...
Come può tutto questo essere un bene per me? Come, in che modo,
per quale assurda ragione? Ha detto cose, mi ha raccontato storie,
mi ha fatto promesse... Ma non riesce a convincermi. No. Solo
di una cosa sono sicuro. Mia madre non c'è più. Solo questo mi è
chiaro. E questo mi basta. O meglio, non mi basta affatto...
Mamma,
mi manchi. Mi manca il tempo di viverti di nuovo, di poterti
dire quello che ora ho capito. E lo dico in silenzio. Ma tu mi
senti.
Un organo comincia a suonare. Dal fondo della chiesa vedo arrivare
Gin. È vestita di scuro, cammina in silenzio. Passa lungo le
arcate,
si tiene fuori dalla vista dei molti, ma non dalla mia. Poi
appoggia
con dolcezza una corona ai piedi dell'altare e mi guarda. Da
lontano. In silenzio. Non accenna a niente. Né un sorriso, né un
rimprovero. Niente. Uno sguardo pulito come solo il suo può
essere.
Al di sopra di tutto, capace di non mischiare il dolore e il
rispetto
con qualunque altra cosa. Un ultimo sguardo. Poi la vedo
tornare in fondo alla chiesa. Poco dopo tutto è finito. All'uscita
la
cerco ma non c'è più. L'ho persa. Persone mi vengono incontro, mi
abbracciano, mi dicono cose, mi stringono la mano. Ma non riesco
a sentire, a capire... Cerco di sorridere, di dire grazie, di non
piangere.
Sì, soprattutto di non piangere. Ma non ci riesco. E non me
ne vergogno. Mamma, mi mancherai. Sto piangendo. Sto
singhiozzando.
E uno sfogo, una liberazione, è la voglia di essere ancora
bambino, di essere amato, di tornare indietro, di non voler
crescere,
di aver bisogno del suo amore puro. Qualcuno mi abbraccia, mi
tiene le spalle, mi stringe. Ma non sei tu, mamma. Non puoi essere
tu. E io mi appoggio, mi piego. Nascondo il mio viso e le mie
lacrime.
E vorrei che non fosse tardi. Mamma, perdonami.
Capitolo 80.
Alcuni giorni dopo. Non so quanti. Quel dolore che provi. Che
non riesci a capire da dove possa arrivare. Che non ti dà
spiegazioni.
Che ti sbatte giù come una grande onda che non avevi visto, che
ti ha preso alle spalle, che ti travolge, ti leva il respiro, ti
fa ruzzolare
sulla sabbia bagnata, su quei passi che ti sembravano così certi
nella tua vita. E invece no. Non lo sono. Non più. Sono giorni che
passo davanti al suo portone. Sono giorni che la vedo uscire nei
modi
più diversi. Nell'unico modo in cui lei è. Bella. Bellissima.
Disordinata,
confusa, elegante, coi capelli raccolti, coi capelli lasciati
andare, giù, pazzi, ribelli. Con due ciuffi, con un vestito a
fiori, con
una salopette mezza calata, con un completo perfetto, con una
camicia
azzurra e il colletto tirato su e una gonna blu scura sotto. Con
dei jeans chiari, con un pinocchietto, con dei jeans strappati e
le cuciture
forti, che risaltano, che si fanno notare. Con tutti i suoi
vestiti
presi su Yoox. Gli accessori. I colori. La fantasia di sapersi
reinventare
ogni giorno. Così. Così com'è lei. Esce sempre da quello
stesso portone e sempre in maniera diversa. Ma ho visto qualcosa
che è sempre uguale. I suoi occhi. Il suo viso. Portano i segni
lontani
di un dispiacere vissuto. Come un sogno bellissimo interrotto
da una serranda tirata su da troppa rabbia. Come il suono
insistente
di un telefonino dimenticato acceso e fatto squillare da uno che
ha
sbagliato numero o, ancora peggio, da qualcuno che non ha nulla
da dire. Come un allarme fatto scattare da un goffo ladro
imbranato
che è già scappato nella notte. Una vita distratta ha urtato col
gomito la sua felicità. E sono stato io. E non posso nascondermi,
non posso giustificarmi. Posso solo sperare di farmi in qualche
modo
perdonare. Ecco. La vedo uscire. La vedo passare. È nella sua
macchina. E per la prima volta dopo tanti giorni nascosto
nell'ombra
faccio un passo in avanti, incrocio il suo sguardo. Fermo
i suoi occhi. Li faccio miei per un attimo. E con loro teneramente
imbarazzato sorrido. Parlo e spiego e racconto e cerco di non
farli andar via. Tutto con uno sguardo. E i suoi occhi sembrano
ascoltare in silenzio, annuire, capire, accettare sul serio quello
che
spero stiano dicendo i miei. Poi, quel silenzio fatto di mille
parole,
intenso come non mai, viene interrotto. Gin abbassa il suo
sguardo.
In cerca di qualcosa. Di un po' di forza. Di un sorriso. Di
qualche
parola detta a voce. Ma non trova niente. Niente. Allora torna
a guardarmi. Scuote leggera la testa. La sua guancia fa una
piccola
smorfia, un accenno di un mezzo sorriso, forse un'ombra di
possibilità. Come a dire "no, non ancora, è troppo presto". Almeno
questo è ciò che voglio leggere. E si allontana così, diretta
verso dove non mi è dato di sapere, verso la vita che l'aspetta,
forse
verso un nuovo sogno, sicuramente migliore di quello che io le
ho rubato. E ha ragione. E se lo merita. Così rimango lì in
silenzio.
Mi accendo una sigaretta. Do solo due tiri e la butto via. Non
ho voglia di niente. Poi capisco che non è vero. Allora la prendo
dal bauletto.
Lontano, più lontano, in quella stessa città. Macchine in
movimento,
clacson, vigili indaffarati, ausiliari inesperti preparati solo
in cattiveria. Rina, la cameriera dei Gervasi, esce dal
comprensorio
degli Stellari. Saluta il portiere col suo solito sorriso dalla
peluria
eccessiva. E continua decisa verso il cassonetto della spazzatura,
accompagnata da un profumo da pochi soldi che nasconde malamente
il lavoro di tutta una giornata. Apre il cassonetto spingendo
forte col piede deciso sulla barra di ferro. Butta con un arco
perfetto,
meglio di una pallavolista alla battuta, il sacchetto della
spazzatura.
Il cassonetto si richiude, come una mannaia lasciata andare
da un boia distratto. Ma non può finire la sua corsa. Da un angolo
spunta fuori un poster arrotolato. C'è la foto ingrandita di quel
ragazzo e quella ragazza a cavalcioni di una moto che "pinna". Il
grido ribelle di quel momento di felicità... di quell'amore ormai
dissolto
nel tempo. Tutto è passato. E ora, come spesso accade, è finito
tra la spazzatura.
Pallina esce di corsa dal suo portone. Allegra e decisa, elegante
come non è più stata. Sale sulla sua macchina e lo bacia ridendo.
Vuole riprendere in mano le redini della sua vita.
"Allora, dove andiamo?"
"Dove vuoi."
Pallina lo guarda e sorride. Ha deciso di buttarsi di nuovo. E
lui è la persona adatta.
"Allora decidi tu, andiamo senza meta per una sera."
E Dema non se lo fa ripetere due volte. Sono anni che aspettava
questo momento. Ingrana la marcia dolcemente e si perde nel
traffico leggero. Poi alza un po' il volume dello stereo e
sorride.
Eva, la hostess, è appena arrivata a Roma. Posa la valigia nella
camera d'albergo e subito prova a chiamarlo. Niente. Il suo
telefonino
è spento, peccato, avrebbe tanto voluto vederlo. Fa niente.
Ci pensa un po'. Poi sorride e compone un altro numero. Chi
viaggia in continuazione ha sempre un altro numero.
Daniela è seduta in camera sua. Ha appena saputo che è maschio.
Sfoglia il libro dei nomi, indecisa. Alessandro, Francesco,
Giovanni... cerca le origini e i significati di ognuno. Dev'essere
un
nome importante, di un condottiero, oppure di uno di quelli
strani,
particolari, che non si dimenticano. E sorride felice tra sé.
Almeno
questo lo posso decidere da sola. Poi si preoccupa. E se il
nome che scelgo è uguale a quello di suo padre? Così rimane
perplessa
e abbandona quel "Fabio" che le sembrava tanto giusto. Vuole
andare sul sicuro... e non sa quant'è inutile questo suo dubbio.
Di sicuro quel bambino non saprà mai il nome di suo padre.
Babi è in camera sua. Controlla felice la lista degli invitati.
Manca
poco. Uffa mamma, hai voluto anche i Pentesti che io non sopporto
e dei cugini che non abbiamo mai visto. Mamma e le sue regole.
Poi per un attimo pensa che quell'idea le piacerebbe da morire.
Sì, sarebbe un'idea bellissima. Invitare Step al suo matrimonio.
Sarebbe fighissimo. E non si rende conto di quanto è tutta sua
madre. Anzi no. Molto peggio.
Due signore si guardano in giro. Vogliono essere sicure che non
ci sia nessuno vicino. Poi tranquille, serve cospiratrici del
pettegolezzo
inutile, possono finalmente sfogarsi.
"Ti assicuro, l'ho visto con una ragazza giovane e molto
abbronzata..."
"Non ci credo... ma l'hai visto tu?"
"No, ma una persona molto fidata."
"Forse ho capito chi te l'ha detto, me l'aveva raccontato anche
a me, ma mi aveva detto anche di non farne parola con nessuno.
Comunque non è abbronzata, è di colore! E una brasiliana! "
"Sul serio? Che strano, da lui questo non me lo sarei mai
aspettato."
"Perché no? Lei è insopportabile! "
Le due donne ridono insieme. Poi rimangono un po' dispiaciute
per quella risata. Forse se lo stanno chiedendo: ma perché,
noi con i nostri mariti come siamo? Finiscono allora per sentirsi
in
colpa, per non sapersi dare bene una risposta. Forse non sono poi
così tanto diverse da lei. Raffaella è in fondo alla sala. Tutte e
due
la guardano. Lei incrocia il loro sguardo e sorride da lontano.
Anche
loro sorridono, complici e un po' goffe. Poi si guardano di nuovo.
Che ci abbia scoperte? Che abbia capito che parlavamo di lei?
E ognuna resta col suo dubbio, mentre Raffaella non le calcola già
più. Dedica ora tutta la sua attenzione all'avversaria.
"Et voilà... chiuso anche il secondo mazzetto. E guarda qui...
Ho fatto anche un burraco ! "
Inizia a contare veloce i punti, felice, senza perdersi dietro a
tutte quelle chiacchiere inutili.
"Ma arbitro, non c'era! " Claudio si alza in piedi, col suo
cappelletto
con la visiera che quasi gli vola via tanta è la foga del suo
entusiasmo, della sua felicità. Si rimette a posto il cappellino e
si
siede di nuovo vicino a Francesca.
"Hai visto anche tu Fra'... non c'era, no?"
E lei fa segno di sì. Non capendo poi tanto di pallone.
"Non c'è niente da fare, è sempre così! Vogliono far vincere
l'Aniene, finisce sempre così qui al Canottieri Lazio ! È perché
quelli
hanno più soci." Claudio, soddisfatto di questa geniale
intuizione,
abbraccia Francesca dandole persino un bacio sulle labbra,
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