uomo
grasso tira fuori un telefonino minuscolo dalla camicia e lo
guarda.
Non ci vede bene e se lo porta vicino all'orecchio. No, non è il
suo. Quasi lo butta sul tavolo. "Che palle 'sti telefonini."
"Io l'ho lasciato a casa," fa Pallina, "quindi non può essere il
mio. Qualche volta, quando non c'ho voglia, lo stacco, ma stasera
me lo sono proprio dimenticato." Lo squillo insiste.
"Guarda che mi sa che è il tuo." Finisco l'ultimo sorso di birra
che quasi mi va di traverso. Cazzo, è vero, non c'avevo pensato.
Lo tiro fuori dalla tasca. È lui. Ora suona più forte. La suoneria
deve
averla scelta Paolo. La gente mi guarda. Anche Pallina. Cerco
di giustificarmi. "Me l'ha regalato stasera Paolo." Pallina
annuisce.
"Pronto." E proprio il mio.
"Meno male, credevo fossi in discoteca. Ma non sentivi?" Una
bella voce di donna che alla fine si mette a ridere. "Ti starai
chiedendo
chi può avere il tuo telefonino. Tuo fratello mi ha spiegato
tutto.
Spero solo di essere stata io la prima a inaugurarlo. Sono Eva. "
Rimango per un attimo in silenzio. Eva? Ma certo... Eva, la
hostess. Eva che mi porta le birre, Eva che saltella su e giù per
l'aereo.
Eva la gnocca. Ecco quando serve un fratello. E un telefonino.
"Allora... Ci sei?"
"Come no."
"Hai capito chi sono o sei riuscito sul serio a dimenticarmi?"
"Come posso dimenticare..." Vorrei dire Eva la gnocca ma capisco
che non è il caso. "Eva. È che credevo che questo telefonino
non funzionasse. Non aveva ancora chiamato nessuno."
"Perché a quante hai già dato il tuo numero?"
Leggermente già gelosa. Rido: "A nessuna...".
"Dove sei?"
"Sono qui con una mia amica."
Silenzio dall'altra parte. "Qui dove?"
"Qui in giro..."
La cosa strana del telefonino è che sei dappertutto e da nessuna
parte.
"E com'è questa tua amica?"
"Una mia amica."
"La tua amica cosa dice che stai così a lungo al telefono?"
Pallina si guarda in giro e saluta degli amici che sono appena
entrati.
"Non dice. Te l'ho detto. E un'amica." La sento più sollevata.
"Senti, se ti va, ci incontriamo da qualche parte. Magari andiamo
a fare un giro."
"C'è un problema."
"La tua amica?"
"No, la mia moto. Sono in moto."
"Ah, allora sì che è un problema."
"Hai paura?"
"Non ho paura, dovrei averne?"
"No." Mi piace questa ragazza.
"Il problema è che non posso andarci. Ho il divieto
dell'assicurazione
di volo. "
Non so se crederle. Ma non è importante.
"E certo, se fai un volo in moto loro non pagano."
"Perché non vieni a trovarmi? Sono all'Hotel Villa Borghese."
Pallina mi guarda e fa un segno con la mano come a dire "Oh,
ma quanto dura 'sta telefonata?".
"E dopo usciamo in taxi? O non sei assicurata neanche per
quelli?"
Eva ride: "E dopo decidiamo".
Chiudo la telefonata.
"E meno male. Discussione con donna?"
"Sei diventata curiosa, eh?"
Mi alzo e prendo lo scontrino.
"Che fai, te ne vai?"
si, ma pago.
Pallina rimane un po' delusa: "Ci vediamo uno di questi giorni
o riparti subito?".
"No, resto."
"Dammi il numero, così ti rintraccio io."
"Non lo so a memoria."
Mi guarda con la sua faccia buffa. La piega da un lato. E mi
fissa.
È più carina, più donna. E le voglio bene. Ma non c'è niente da
fare. Non mi crede.
"Dai, allora ti faccio uno squillo io. Oppure telefona a casa, mi
trovi lì, sto da mio fratello, il numero è sempre lo stesso."
Si tranquillizza. Si alza e mi dà un bacio: "Ciao Step.
Bentornato".
E raggiunge gli amici.
Capitolo 8.
La moto si accende subito. La batteria si è ripresa senza
problemi.
Prima, seconda, terza. In un attimo sono sotto il cavalcavia
di corso Francia. Mi viene in mente una cosa e torno indietro. A
una come Eva forse può piacere. E soprattutto ne ho voglia io.
Cinque minuti dopo. Corso Francia, piazza Euclide, viale Parioli.
Una casba di ristoranti e macchine in doppia fila. Finti
posteggiatori
eleganti, probabili polacchi dall'italiano stentato. Una signora
più o meno negata tenta una manovra per posteggiare bene. Secondo
lei. In realtà ha bloccato un'intera curva. Ragazzi e ragazze
fuori dal Duke ostacolano il traffico. Svicolo veloce fra le
macchine,
evito un tentativo di curva a U e sono a piazza Ungheria. A
destra e poi dritto fino allo zoo. In fondo a sinistra e poi di
nuovo
a destra. Hotel Villa Borghese. Posteggio la moto e scendo con
la busta. "Buonasera." Cazzo, non ci avevo pensato. Non so il
cognome.
"Buonasera..." Ci riprovo. Chissà da dove può arrivarmi
l'ispirazione. Il portiere, un uomo sui sessant'anni dall'aria
pacioccona
e simpatica, decide di salvarmi.
"La signorina l'aspetta. Camera 202, secondo piano."
Vorrei chiedergli perché pensa che io vada proprio da lei. E se
volevo invece una stanza o qualcos'altro? Una semplice
informazione,
per esempio. Ma capisco che è meglio stare zitti. "Grazie."
Mi guarda andar via. Fa un mezzo sorriso, poi sospira. Fa su e giù
con la testa. Invidia per Eva o per quegli anni ormai passati, più
belli
perfino di lei. Salgo le scale. 202. Mi fermo e busso.
"È lo champagne?" chiede divertita venendo verso la porta.
"No, la birra."
Apre: "Ciao, entra". Mi bacia due volte sulla guancia. Cammina
tranquilla, leggermente altera ma più morbida di come passeggiava
sull'aereo. E un'altra cosa. Ha i capelli sciolti.
"A parte gli scherzi, vuoi qualcosa da bere? Me la faccio portare
da giù."
"Sì, te l'ho detto. Della birra."
"Quella è nel frigo." Mi indica un piccolo frigorifero nell'angolo
opposto al suo. Vado a prenderla. Quando mi giro è già seduta
sul divano. Ha le braccia aperte, poggiate sul bracciolo e sul
cuscino. Le gambe lasciate andare giù, con le ginocchia che si
stringono
vicine. "Sono stravolta. Ho fatto un giro per fare shopping
come mi avevi detto tu."
"E come è andata?"
"Bene. Ho comprato una camicia da notte e un completo molto
carino di un blu particolare, 'blu perso', così l'ho chiamato io.
Ti piace?"
"Molto."
Sorride, si tira su, sedendosi più dritta: "Vuoi vedere come mi
sta?".
Vivace, attenta, divertita. E mi sorride. Mi guarda in maniera
più intensa. Con una strana malizia. Per dimostrare qualcosa, la
sua
ipotetica eleganza o chissà cos'altro. È una sfida? L'accetto. "Ma
certo."
Prende una busta. Mi guarda, poi alza il sopracciglio e divertita
si allontana. Ma so che vuole sentirselo dire.
"Dove vai?"
"In bagno. Che pensavi?" E chiude dietro di lei la porta con
un ultimo sorriso della serie: "Ma tra poco sono qui, cosa credi".
Finisco la birra appena in tempo. Eccola. Eva.
"Come sto?" Ha la camicia da notte trasparente che le scivola
sul corpo come un'onda leggera, così leggera che mi sembra quasi
di sentire quel mare. È color blu polvere. Blu perso, come ha
detto
lei. Ha pettinato anche i capelli. Perfino il sorriso, non so, è
cambiato.
"Carina. Molto. Se questa è la camicia da notte... ora vorrei
vedere
il completo."
Ride. Poi cambia espressione e si avvicina con fare professionale.
È tornata hostess. "È lei che ha suonato? Cosa desidera?"
Non mi vengono battute. Me ne affiora una: "Come direbbe la
signora:
'Te, gnocca' ". Ma la trovo pessima. E l'abbandono. E faccio
bene.
Ma lei insiste.
È vicinissima al mio viso. E mi torna in mente per un attimo
quella canzone dei Nirvana, "If she ever comes down now...".
"Allora, cosa desideri?"
"Perdermi nel tuo blu perso."
E questa le piace. Eva ride. Me la dà buona. La battuta. Decide
di sì, di farmi perdere subito. Mi bacia. Meravigliosamente bene,
tranquilla, morbida, a lungo. Gioca con il mio labbro inferiore
succhiandomelo, lo tira leggermente a sé, alla sua bocca. Poi, a
un
tratto, lo lascia andare. Ne approfitto.
"Ti ho portato una cosa."
D'altronde non c'è fretta. Non è previsto l'atterraggio. Non
adesso. Mi stacco da lei e prendo la busta. Rimane sorpresa a
guardarmi.
Ha i capezzoli che affiorano tra le pieghe leggere della sua
camicia da notte. Ma non voglio perdermi ora tra quelle correnti.
Apro la busta sotto i suoi occhi.
"No, stupendo. Due fette di cocomero!"
"Le ho prese da un mio amico a Ponte Milvio. Era una vita che
non lo vedevo, me le ha regalate."
Gliene passo una.
"Ha i cocomeri più buoni di Roma." Dopo i tuoi, vorrei aggiungere.
Ma sarebbe peggio dell'altra. Addenta la fetta e subito
con un dito raccoglie un po' di succo che le scivola dalle labbra
e
succhia cercando di non perderne neanche una goccia. Rido. Sì.
Non c'è fretta. Addento la mia anch'io. È fresca, dolce, buona,
compatta,
non farinosa. Eva continua a mangiare. Le piace. Le divoriamo
guardandoci, sorridendo. Diventa quasi una gara. Le mezze
lune rosate alla fine ci rimangono in mano. Mentre con la bocca
continuiamo a masticare. Il succo ci scivola giù fino al mento.
Lei
poggia la sua fetta finita sul tavolo e, senza asciugarsi la
bocca, mi
bacia di nuovo.
"Ora sei tu il mio cocomero." Mi morde sul mento e mi dà una
leccata tutt'intorno alla bocca, frenata solo dalla mia barba
ancora
leggera. E lei decisa, affamata, divertita. Ancora più donna.
"Sai, ti ho desiderato in aereo e ti desidero adesso..."
Non so cosa risponderle. Mi fa strano sentirla parlare. Rimango
in silenzio mentre lei mi sorride. "È la prima volta che vado con
un passeggero."
Tranquillo tiro fuori il telefonino dalla tasca. Penso alla
suoneria
e lo spengo. Certo, visto come stanno andando le cose, è il più
bel regalo che Paolo mi potesse fare.
"Invece tu eri l'unica hostess che mi mancava."
Prova a darmi uno schiaffo. Le blocco al volo la mano e la bacio,
dolcemente. Si arrabbia, fa la finta imbronciata, sbuffa.
"Però sei anche il cocomero più buono che abbia mai assaggiato."
Scuote la testa divertita e si libera dalla presa. Si siede
davanti
a me con le gambe incrociate. Decisa, sfrontata, spavalda. Mi
infila
apposta la mano lì davanti. Lentamente, con dolcezza. Dove sa
lei. Dove so io. Mi guarda negli occhi, con sfida, senza pudore. E
io la guardo, senza cedere, sorridendo. Allora mi tira a sé, con
desiderio,
avida, aggrappandosi quasi alle mie spalle. E mi lascio andare,
così. Mi perdo in quell'ex blu perso, piacevolmente rapito
dalla dolcezza del tutto, cocomero compreso.
Capitolo 9.
Lontano. Sull'Aurelia, prima di Fregene, a Castel di Guido. Un
vecchio castello abbandonato è stato tirato a nuovo. Cinquanta
writer hanno passato due giorni a graffitarlo. Cinque americane
tirate
su con lampade d'ogni tipo, tanto da poterlo, in un attimo,
illuminare
a giorno. All'interno, tre consolle con duecento casse da
100 kw sparse lungo i saloni abbandonati, su, nelle rocche, nelle
stanze con gli antichi affreschi ormai scoloriti dal tempo e
perfino
nelle cantine. Cinquemila candele disseminate a caso tra il
giardino
e gli interni. E come se non bastasse, due camion con più di
duecento
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