«Mi, la, la…»

Una voce alle sue spalle la ripescò da quel ricordo di vent’anni prima.

«Eri arrivata a questo passaggio? Ti ricordi? Lo sba-gliavi sempre.»

Sofia aveva ancora gli occhi chiusi e sorrise. Aveva riconosciuto la voce. Era Olja.

«Mi hai salvato. Non c’ero ancora arrivata.»

Chiuse lo spartito.

«Magari questa volta lo avresti azzeccato. È più facile non commettere gli stessi errori.»

«L’ho sempre sbagliato perché avrei voluto che quel passaggio Bach lo avesse scritto proprio in quel modo.»

Olja sorrise. «Ci sono cose che non si possono cambiare, vanno accettate così come sono. Altre invece si possono cambiare.»

Sofia si mise la giacca. Poi si voltò un’ultima volta verso di lei. «Non credo che suonerò più, Olja. Non insistere.»

Olja chiuse gli occhi. «Non parlavo di questo. Ma non fa niente.»

«Ci vediamo.»

«Quando vuoi passa, io sono qui. Se no ci vediamo mercoledì. Ti voglio bene.»

Sofia sorrise e uscì in strada. Aveva finito prima del solito. Domitilla Marini, la ragazza dell’ultima lezione, dalle alle, non era venuta. Poco male, sarebbero stati soldi in meno ma già così era stata una giornata faticosa. Una bella passeggiata prima di andare al parcheggio, prendere la macchina e rientrare a casa non sarebbe stata una cattiva idea. Si mise a camminare velocemente verso il Tevere, fece un pezzo di corso Vittorio Emanuele e attraversò il ponte che portava a via della Conciliazione. Camminava veloce ma aveva addosso una strana sensazione, come se qualcuno la seguisse. Si fermò, finse di guardare una vetrina. Poi si girò di colpo. Guardò a destra, a sinistra, poi in fondo alla strada. Si era sbagliata. C’erano diverse persone, ragazze e ragazzi, qualche coppia di turisti. Un com-merciante fumava una sigaretta davanti alla sua vetrina, un altro salutava una signora accompagnandola fuori dal suo negozio dopo che aveva acquistato qualcosa.

Ma nessuno aveva fatto un movimento improvviso o si era nascosto, nessuno sembrava essere interessato a lei.

Sofia si tranquillizzò.

Prese una piccola traversa che le permetteva di ac-corciare la strada. Arrivata in una piazzetta, vide un bar con alcuni tavolini fuori. Guardò l’orologio. Era presto. Si sedette e decise di bere qualcosa. Sbirciò all’interno del locale per richiamare l’attenzione del cameriere ma non c’era nessuno. Poi si voltò e se lo trovò davanti.

«La vuole una foto?» Un ragazzino di dieci anni era di fronte a lei e sorrideva. Aveva una maglietta colorata lunga fino al sedere, i capelli scuri e gli occhi nocciola.

Doveva essere del Bangladesh. «Solo quindici euro…»

«Solo?» sorrise Sofia. «Le fai pagare troppo le tue foto e poi le devi fare alle persone giuste. Io non sono una turista.»

Il ragazzino per un attimo ci rimase male ma poi sorrise e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni alcune cianfru-saglie. «Vuoi un accendino? Una lampadina? Il cuore portafortuna? Questo fa innamorare…»

Sofia fece segno di no con la testa. «No grazie, non fumo e non ho bisogno di niente.»


Il ragazzino, deluso, rimase impalato di fronte a lei con le braccia lungo il corpo.

«Va bene, facciamo così…» Sofia aprì il portafogli.

«Ti do un euro se mi vai a chiamare il cameriere e gli dici che c’è una persona fuori che vuole ordinare.»

«Subito, signora…» Il ragazzino le sfilò veloce l’euro di mano e corse dentro il bar tutto felice di aver rimediato qualcosa. Sofia sorrise, poi guardò più lontano, in fondo alla piazzetta si vedeva uno scorcio del Tevere e poi Castel Sant’Angelo. Le sue mura sembravano di-pinte di arancione, doveva essere il sole del tramonto riflesso sul fiume. Le nuvole più in alto erano rosate.

«Allora, cosa vuole ordinare?»

«Vorrei un Bitter, grazie. E delle patatine…» Si girò colpita da quella voce. Le sembrava di averla già sentita e quando lo vide non ebbe più dubbi. Era lui, l’uomo in pantaloncini fuori dalla chiesa, quello che l’aveva fermata sulla scalinata prendendole il braccio, quello che lei aveva immaginato sotto le lenzuola. Quello che aveva pensato di non incontrare mai più. Evidentemente si era sbagliata. Senza volerlo arrossì.

«Lei?»

«Già, io.» Tancredi sorrise.

«Sta qui?»

«E lei sta lì, a quanto sembra.»

Sofia cercò di vincere l’imbarazzo e finse indifferenza.

«Non avrei mai potuto immaginare che questo posto fosse suo…»

«Non ci si sarebbe fermata?»

«No, non dico questo, è che…»

Arrivò il cameriere che la salvò.

«Volevate ordinare?»

«Sì.»

Tancredi prese in mano la situazione. «Allora, un Bitter per la signora, e delle patatine…» Poi rivolto a Sofia: «A proposito, il Bitter bianco o rosso?».


«Rosso…»

«Allora, per lei un Bitter rosso con delle patatine, per me una birra, grazie.»

«Benissimo.» Il cameriere scappò di nuovo dentro il locale.

Sofia lo guardò. «Allora non è suo questo bar…»

Tancredi sorrise. «Mai affermata una cosa del genere.»

«In qualche modo me l’ha fatto credere.»

Tancredi la guardò incuriosito. «Veramente no… Ma non ci davamo del tu?»

Sofia arrossì di nuovo. «Sì, credo di sì…»

«Abbiamo anche riso su quella scalinata…»

«Già.»

«E comunque tu mi hai semplicemente chiesto: “Stai qui?”. E io ho risposto di sì ma non ho detto che era mio il bar. Posso?» Tancredi indicò la sedia vicino a lei.

Sofia si guardò intorno, c’era poca gente e quelle vie erano poco trafficate. All’interno del bar alcuni clienti prendevano un aperitivo ma non era questo il problema, o meglio la sua vera preoccupazione. Poi lo guardò di nuovo. Sorrideva e lei lo stava facendo aspettare troppo.

«Se vuoi mi siedo al tavolo vicino e parliamo a voce alta…»

Sofia sorrise. «No, no, siediti qui.»

«Grazie, molto gentile.» Tancredi lo disse in maniera un po’ ironica ma era comunque felice di quel primo passo. Per adesso tutto procedeva per il meglio. «Io comunque mi chiamo Tancredi…» Allungò la mano verso di lei.

«Sofia.» Gliela strinse.

«Sofia…» Tancredi era come se soppesasse quel nome.

«Lo sai che ci avrei scommesso che ti chiamavi così…»

«Sì?»

«Sì, te lo assicuro. Questo nome ti sta proprio bene…

Sul serio.»

Sofia sorrise. «Grazie.» Sembrava contenta di quel complimento. «Secondo me ci avresti scommesso perché già sapevi che mi chiamavo così…»

Tancredi smise di sorridere e cercò di sembrare il più ingenuo possibile. «Io? E come?»

«Mah, la prima cosa che mi viene in mente è che sei tornato alla chiesa dove ci siamo conosciuti e lo hai chiesto a qualcuno oppure non ci sei tornato e lo hai chiesto il giorno stesso. Forse alla mia insegnante, quella che dirigeva il coro.»

«Lei?»

«Quella signora anziana, lo sai benissimo, l’hai vista dentro la chiesa che suonava l’organo…»

«Ah, sì. No. Non l’ho chiesto a lei…»

«Certo, perché sapevi che me lo avrebbe detto subito. Ci tiene a me.»

Tancredi allargò le braccia. «Ma perché io devo per forza essere pericoloso?»

«Forse no… Ma forse sì.»

Proprio in quel momento arrivò il cameriere.

«Ecco il Bitter rosso per la signora e la birra per lei.»

Tancredi prese il portafoglio e pagò. «Tenga pure il resto.»

«Grazie.» Il cameriere si allontanò.

Sofia lo guardò. «Non mi hai chiesto se potevi pagare per me.»

«Mi sembrava più educato offrire.»

«E se non avessi voluto?»

«Ormai l’ho fatto, vorrà dire che la prossima volta toccherà a te.»

«Quale prossima volta?»

«Magari capiterà di incontrarci di nuovo… La vita è piena di sorprese. Guarda noi… Non ci siamo visti per anni e nel giro di una settimana ci incontriamo due volte.»

«Sono sempre dell’idea che non sia un caso…»

Tancredi bevve un sorso di birra, poi si asciugò la bocca con un tovagliolino di carta. «Scusa Sofia, ma questo è un po’ presuntuoso da parte tua…»

Sofia bevve il suo Bitter e annuì serena. «Uhm uhm, può essere.»

«Se fosse come dici tu, vuol dire che in qualche mo-do sono attratto da te.»

«In qualche modo… Sì.»

Tancredi non si aspettava questa reazione. «Mah.»

«Mah cosa? Scusa, non sei stato tu che mi hai fermata fuori dalla chiesa?»

«Sì.»

«Non sei stato tu che hai tirato fuori quella teoria sulle nostre vite che sarebbero potute cambiare, noi due personaggi dentro un quadro di Magritte? E che però non eravamo…»

«Una pipa…»

«Esatto, hai detto che saremmo potuti essere protago-nisti di chissà quale altra scena. Sei stato tu o mi sbaglio?»

«Sì, sono stato io, però… ti ricordi tutto.»

«Più o meno, diciamo che è stato uno dei ricordi più originali degli ultimi anni.»

«Ci provano in molti?»

«Zzz.»

«Cos’è?»

«Alta tensione, quando fai una domanda sbagliata, vai fuori binario e prendi la scossa elettrica, chiaro?»

Tancredi allargò le braccia come per dire: “Mi arrendo”, poi bevve un altro sorso di birra. Gli piaceva molto quella donna ma non sarebbe stato facile. Non riusciva a capire quali fossero i suoi punti deboli, sempre che ne avesse. Sembrava distaccata da tutto e tutti. Si ricordò un detto di suo padre: “Ognuno ha il suo punto debole, basta avere tempo e soldi per scoprirlo”. Posò il bicchiere e prese una patatina. Ora era più sereno. Lui non aveva fretta e, per quanto riguardava il resto, non c’erano problemi.

La partita sarebbe stata anche più divertente.


Sofia finì di bere il suo Bitter.

«Vuoi qualcos’altro?»

«No grazie. E tu cosa vuoi, Tancredi?»

Non si scherzava più. La osservò meglio. Era bellissima, aveva i capelli sciolti, un vestito accollato ma non troppo, libero in vita, di cotone leggero, con dei piccoli disegni. La bocca era carnosa ma non sorrideva.

Tancredi era impreparato a quella domanda. Era stata troppo diretta. Non conveniva mentire a una così.

«Allora? Cosa vuoi, Tancredi?»

«Zzz. Anch’io ho intorno dei fili ad alta tensione. Domanda fuori programma. Risposta non prevista.»

Sofia lo fissava. Tancredi sosteneva il suo sguardo.

Questa lotta durò per un po’. Poi lui decise di arrender-si per primo e sorrise. «Ok… Non litighiamo.»

«Non stiamo litigando.»

«E cosa stiamo facendo?»

«Stiamo cercando di parlare come due adulti. Ma uno dei due non vuole fare l’adulto.»

«Zzz.»

Sofia non aveva voglia di stare allo scherzo.

«E mi copia le idee… Anzi le ruba.»

«Ok. Mi arrendo. Facciamo gli adulti, va bene?»

«Vediamo.»

«Non capisco perché tu non possa essere semplicemente felice che il caso ci abbia fatto incontrare di nuovo.»

«Te l’ho detto. Non credo sia stato il caso.»

«Ma perché non può essere? E come non credere alle favole…»

«Quello è diverso. Io credo che ci sia un tempo per le favole e forse il nostro è passato. E poi le favole sono belle perché sono brevi.»

«Cioè?»

«Se dopo il “e vissero tutti felici e contenti” il racconto continuasse, il finale sarebbe molto diverso.»


«Fammi un esempio.»

«Vedremmo Biancaneve che non sopporta più i sette nani, Cenerentola che manda a quel paese le due sorel-lastre e magari con quel principe azzurro così leccato, sì insomma, non sarebbe durata un granché…»

«Sei cinica.»

«Realista.»

«Ok.» Tancredi sospirò. «Allora non è stato il caso.

Diciamo che è stato il destino…»

Sofia piegò la testa di lato facendo una smorfia come per dire: “Insisti con questa versione?”. Lui decise che era meglio giocare a carte scoperte.

«Volevo dire… un destino di nome Simona.»

«Simona? Simona chi? Abbiamo un’amica in comune?»

Sofia passò velocemente in rassegna tutte le sue amiche del lavoro e di scuola ma non le veniva in mente nessuna Simona.

Tancredi decise di aiutarla.

«E riccia, molto carina, un bellissimo sorriso e ha sei anni. L’hai abbracciata in chiesa.»

«Ah.» Sorrise ricordando la piccola peste piena di lentiggini. Ma certo, Simona Francinelli, bravissima nel coro, la sua preferita. “Non ci credo. Questo tipo è tornato in quella chiesa e ha parlato con una ragazzina.

Quindi è venuto in piazza dell’Oro a cercarmi. Potrebbe essere qui dalle…”

«Sono qui dalle sei. Ti ho dedicato solo metà pomeriggio, prima non mi era proprio possibile.»