Poco dopo erano in acqua. Sofia si rilassò, piano piano svanì la tensione di quell’esecuzione, di quella difficilis-sima prova. Nuotò verso di lui e lo baciò. L’acqua era calda, le loro gambe si intrecciarono. Sentì subito salire la sua eccitazione, come quella di Tancredi. Poco dopo facevano l’amore dolcemente, come sospesi sull’acqua.

Più tardi continuarono in camera con passione, senza dire una parola. Ogni sguardo, però, era pieno di desiderio, di sesso, di voglia, era come se fosse pieno di mille parole.


Quando Sofia si svegliò era sola. Preparò la borsa.

Scese per fare colazione, per salutarlo, ma trovò solo una bellissima rosa rossa dal gambo lungo. Un biglietto era poggiato lì vicino.

“Perte. Solo per te.”

Quando finì la colazione, Cameron, la ragazza che l’aveva accolta al suo arrivo, si presentò al tavolo.

«Quando vuole l’accompagno alla spiaggia.»

«Grazie.»

Poco dopo la macchina elettrica si fermò al pontile più grande. Un motoscafo la stava aspettando con il motore acceso. Sofia scese e salì a bordo. Caricarono la sua valigia e il suo beauty. Poi il motoscafo partì, fece una curva e piano piano si allontanò dalla spiaggia, prese il largo andando verso terra.

Sofia si girò e guardò l’isola. Tancredi era sulla torre dove avevano cenato la sera prima. Aveva le mani in tasca e i capelli al vento, ma guardava da un’altra parte, verso il sole.


Il taxi si fermò. Sofia pagò e scese.

Si ritrovò da sola in mezzo alla strada, ferma davanti al suo palazzo, con le sue valigie ai piedi. Prese l’ascensore e poco dopo arrivò di fronte alla porta. Infilò le chiavi nella toppa, poi aprì. Andrea arrivò in salotto a gran velocità e fece partire la musica dallo stereo lì vicino.

«Eccoti! Bentornata!»

Sofia guardò in giro. Alcune stelle filanti scendevano disordinate dal lampadario, dei fiori di campo erano sul tavolo al centro del salotto. Su un cartellone rosa Andrea aveva disegnato i pupazzi di Topolino e Minnie che si guardavano timidi e innamorati. Sopra un cuore con i loro nomi: “Andrea e Sofia”. Vide dei pasticcini sul tavolo e lì vicino una bottiglia di ottimo Bellavista Franciacorta.

Sofia guardò tutti quei preparativi, quel tentativo di essere carino, poi si avvicinò ad Andrea e lo baciò sulle labbra.

«Mi sei mancato.»

E poi, senza riuscire a evitarlo, cominciò a piangere.

«Perché piangi, amore? Non fare così.»

Sofia si inginocchiò e poggiò la testa sulle sue gambe.

Andrea le accarezzò i capelli, poi guardò le stelle filanti che scomposte penzolavano dal lampadario, i fiori di campo in un angolo, Topolino e Minnie con i loro no-mi dentro quel cuore. Sofia continuava a piangere. Era contento di averla sorpresa. L’emozione gioca sempre brutti scherzi, soprattutto a chi, come lei, era così sensibile. Allora sorrise e le fece un’altra carezza.

«Anche tu mi sei mancata.»

I giorni seguenti non furono facili.

«Ma ti sei abbronzata moltissimo! Ti sei divertita?

Com’era questo maestro tedesco? Bravo?»

Le risposte erano solo bugie ma non poteva tradirsi.

Sull’aereo di ritorno aveva trovato una rassegna stampa di tutti i suoi concerti. Li aveva letti velocemente e con facilità memorizzati. Era una serie di appunti su come potevano essere andati quei cinque giorni ad Abu Dhabi, cosa aveva mangiato, com’era stato il tempo e poi le particolarità dei mercati, la parola più usata dalle persone in quella lingua, ciao, buongiorno, buonanotte e gli alberghi più importanti, una mostra che poteva aver visto. Sofia non fece altro che ripetere tutto quello che aveva letto sul fascicolo.

Poi arrivò il momento più complicato.

«Ehi, hai mangiato mentre stavi fuori… Vieni qui…»

Sofia si avvicinò al letto.

«Mi piaci ancora di più così tonda.»

Lui le accarezzò piano le gambe, salì su lentamente.

Sofia chiuse gli occhi. Doveva essere naturale, credibile, desiderarlo. In qualche modo si lasciò andare ma fare l’amore fu la cosa più difficile. Non pensare a quei cinque giorni fu quasi impossibile. E per un attimo si sentì in colpa. Le sembrò di tradire Tancredi.

Piano piano le cose rientrarono.

Avevano spedito la domanda allo Shepherd Center di Atlanta prima della partenza.

Appena due settimane dal suo ritorno finalmente arrivo la risposta. Tutti i passaggi dovuti erano stati fatti, le procedure erano state rispettate, l’ospedale aveva risposto positivamente. Tra venti giorni ci sarebbe stata l’operazione.

Sofia tornò alla scuola di musica per ingannare il tempo. Chiese ad Olja di restituirle la lettera che non aveva spedito e poi le raccontò dei suoi concerti.

«Nell’ultimo bis ho fatto la Giga della Toccata in Mi Minore di Bach.»

«E?…»

Sofia le sorrise.

«Tutto bene.»

Olja l’abbracciò soddisfatta.

«Lo sapevo. Sei una pianista eccellente. Io non volevo che tu fossi la migliore, volevo che tu fossi unica.

E ci sono riuscita.» Si allontanò così lungo il corridoio.

Sofia la guardò scendere le scale un po’ traballante ma felice. Almeno su questo non aveva dovuto mentire.

In un attimo poi arrivò il giorno della partenza.


Tancredi era nel suo ufficio di New York. Sorseggiava un caffè guardando le foto nella cartellina. Erano state scattate sull’isola. Un centinaio. C’era Sofia mentre faceva il bagno, mentre si cambiava, mentre passeggiava al tramonto e anche il loro bacio. Il primo giorno un fotografo aveva immortalato i loro diversi momenti di nascosto, perfino con degli infrarossi. Quando erano in camera da letto invece era stato lui stesso ad attivare una telecamera. Spinse un telecomando e accese una grande tv al plasma, poi un lettore e fece partire il filmato.

Eccola. Non aveva nulla addosso. Era bellissima. Era eccitante. L’ascoltò sospirare. Gli mancava. Moltissimo.

Gli mancava perché non era sua? Gli mancava perché era lei. L’interfono lo avvisò di una visita. Spense tutto, poi chiuse la cartellina.

«Lo faccia entrare.»

Davide apri la porta. Era vistosamente arrabbiato.

Si fermò davanti al suo tavolo. Tancredi lo guardò sorpreso.

«Ciao, amico mio, che ci fai qui? Non sapevo fossi a New York.»

«Sono qui per te. Volevi un attico su Manhattan, lo sto cercando.»

«E come va la ricerca?»

«Male. Però ho trovato questa.»

Gli buttò una lettera sul tavolo. Tancredi la guardò incuriosito. Davide gliela indicò.


«Leggila.»

L’aprì.

La scrittura era di Sara. “Amore mio, non è possibile vivere così. Da quella notte in piscina ho capito che nulla potrà mai essere più come prima…”

Tancredi la lesse fino in fondo. Non faceva il suo no-me. Davide lo stava fissando.

«E Sara. Non riconosci la sua scrittura?»

«Sì. Mi sembra la sua.»

«Capisco di chi sta parlando anche se non fa il nome.

È indirizzata a te. Perché non me lo hai detto?»

«Cosa dovevo dirti?»

«Te la sei scopata?»

«Tu che pensi?»

«Potevi avere mille donne. Perché proprio lei? Per la tua collezione?»

Tancredi bevve un altro po’ del suo caffè. L’interfono suonò. Tancredi rispose. «Sì? Chi è?»

«Hai bisogno di me?» Era Savini.

«No grazie. E tutto a posto.» Chiuse l’interfono poi fece un sospiro, si appoggiò allo schienale della poltrona.

«Vuoi sederti?»

«Preferisco restare in piedi. Ti ho fatto una domanda. Te la sei scopata?»

«Lei cosa ti ha detto?»

«Mi ha’detto di sì.»

Tancredi rise.

«Cosa c’è da ridere?»

«Ha sempre odiato la nostra amicizia. Credo che le desse fastidio, era gelosa di noi come se io fossi la tua amante.»

«Lei ti amava.»

«Non ha mai amato nessuno. Mi voleva perché non poteva avermi.»

«Perché sei così sicuro?»


«Perché sono un tuo amico. Anche se avessi provato qualcosa per lei, provavo qualcosa di più per te. E lei questo lo sapeva.» Tancredi lo guardò. «Mi dispiace, non me la sono scopata, e non perché non mi piacesse…»

Davide lo guardò in silenzio per un po’. Tancredi resse tranquillamente il suo sguardo. Era sereno, non c’era stato assolutamente nulla. Davide fece un lungo sospiro.

«Ora capisco alcune cose.»

Fece per andarsene.

«Salutamela.»

«Non so dove sia. Se ne è andata.»

«Riprenditi la lettera.»

«E stata lei a dirmi di consegnartela. È per te.»

Davide uscì dalla stanza. Tancredi rimase solo. Improvvisamente il telefono squillò. Era suo fratello. Non aveva voglia di rispondere, lo avrebbe richiamato.

Si versò dell’altro caffè, prese la lettera dalla scrivania, la strappò e la buttò nel cestino. Poi aprì la cartellina, si mise a sfogliare le foto. Sofia che rideva. Sofia che correva sulla spiaggia. Sofia che andava in bicicletta.

Sofia che usciva dall’acqua con un costume chiaro. In trasparenza si vedevano i suoi capezzoli, il suo corpo, le gambe forti. Rideva in quella foto portandosi indietro i capelli bagnati. In un’altra era da sola, seduta su un lettino, guardava il mare. Era come assorta, aveva un velo di tristezza. Si era tolta i grandi occhiali da sole neri e guardava lontano come se cercasse, sul filo di quell’orizzonte, chissà quale risposta. Osservò meglio quella foto. I suoi occhi, la sua espressione. Particolarmente forte, intensa. Cosa le era passato per la testa in quel momento? Stava prendendo una decisione? Facendo una scelta? Posò la foto.

Si ricordò di quel pomeriggio, avevano chiacchierato leggeri come se si conoscessero da sempre. E quella sera lui per la prima volta si era aperto, le aveva raccontato tutto di Claudine. Sofìa era rimasta in silenzio poi aveva cercato di aiutarlo. Aveva parlato a lungo, aveva cercato di allontanare da lui quel senso di colpa. Ma non era facile. Si ricordò una sua frase.

“E strano che non abbia lasciato niente. Quando si sta così male si ha la necessità di scrivere, di dirlo almeno a se stessi.”

Claudine avrebbe voluto dirlo a lui. Era a lui che si era rivolta, a suo fratello. Ma suo fratello non aveva trovato il tempo per lei. E questo Tancredi non riusciva ad accettarlo. Non riusciva a perdonarsi. Era morta per colpa sua. Era stato lui l’ultimo a vederla, l’ultimo che avrebbe potuto farle cambiare idea.

Rimase in silenzio. Quello che gli aveva detto Sofia era vero, lui non voleva amare. Ma c’era una verità ancora più grande, lui non riusciva ad amare. Non poteva essere di nessuno perché apparteneva a quella colpa.

Bevve un po’ di caffè. Quel dolore lo aveva accompagnato per anni, non lo lasciava andare, non lo abbando-nava mai. Ruotò lentamente la poltrona e si ritrovò di fronte alla vetrata che dava sulla Seventh Avenue. Nella strada principale sotto di lui, il traffico era lento nell’ora di punta. Una lunga fila di taxi procedeva quasi a passo d’uomo sulla destra, i marciapiedi erano affollati di persone che camminavano veloci. Lì sotto, in qualche metro quadro si sviluppavano tutte le ultime tendenze della Grande Mela. Eppure nulla cambiava. In qualche modo tutto era sempre uguale. Si ricordò di un’altra frase di Sofia.

“Ma dopo la morte di Claudine, non è successo nulla di strano?”

“No. Tutto come prima, è rimasto tutto esattamente uguale. “

Questo invece non era esatto. Aveva ripensato a tutto quel periodo subito dopo la morte di Claudine. Co-me poteva non averci fatto caso? In effetti qualcosa di strano era avvenuto, un piccolo cambiamento, forse in-significante, c’era stato, ma andava verificato. Uscì dalla stanza dell’ufficio e incontrò Savini.

«Che notizie hai?»

«Sono arrivati, hanno preso alloggio nella al quinto piano. In mattinata faranno le analisi e i controlli, credo che l’operazione sia per domani mattina alle nove.»

«Ok.» Tancredi passò a Savini un foglio.

«Voglio sapere tutto su questa persona il prima possibile. Conto corrente, ultimi acquisti, dove abita, cosa fa nella vita…»

Savini lesse il nome. Non gli era nuovo. Ma decise di eseguire quello che gli aveva chiesto senza chiedere spiegazioni.

«E poi fai preparare l’aereo.»

«Andiamo ad Atlanta?»

«No, quando avrai scoperto dove si trova questa persona, andremo a parlarci.»


La camera all’ospedale Shepherd Center di Atlanta era composta da tre stanze. La prima per il paziente era molto grande, aveva un televisore a muro, un armadio e una bellissima vista sul campo da golf Bobby Jones. Nel salotto accanto invece si trovavano un mobi-letto bar, un tavolo con quattro sedie, un altro televisore, un divano per gli ospiti, mentre nell’ultima il bagno.