Il servizio era impeccabile. C’erano sempre fiori.
Uno dopo l’altro alcuni medici visitarono Andrea, gli spiegarono i vari passaggi dell’operazione usando termini tecnici che lui si fece ripetere più volte per capire bene di cosa si trattasse. Poi arrivò il professore. Mishuna Torkama era un uomo di piccola statura ma, quando entrò, tutti smisero di parlare.
«Buongiorno. Lo Shepherd Center è felice di averla qui.» Poi gli sorrise con grande sicurezza e improvvisamente Andrea si sentì più tranquillo. Ascoltò la sua spiegazione. L’operazione era complicata, questo non lo si poteva nascondere, usavano le staminali, sarebbe durata un tempo che variava dalle sei alle dodici ore.
In realtà era un tempo molto indicativo, un intervento era durato quattro ore e un altro ventiquattro, ma tutti erano riusciti perfettamente. Un solo paziente era dece-duto, ma per complicazioni successive all’operazione.
«Ma gli altri interventi hanno avuto degli esiti eccel-lenti e una capacità di ripresa miracolosa» concluse Mishuna Torkama sorridendo di nuovo, la sua affermazione avrebbe dovuto fugare ogni minimo dubbio. «A più tardi.» Lo salutò e uscì dalla stanza. Altri medici porta-rono i risultati delle analisi, dell’elettrocardiogramma e di tutte le prove che Andrea aveva sostenuto nei giorni precedenti.
«Allora non ci dovrebbero essere problemi. Lei comunque deve firmare questi fogli.»
Un medico gli fece firmare il consenso informato dove erano elencate tutte le possibili complicazioni. Andrea doveva dichiarare ufficialmente di esserne al corrente.
Quando se ne fu andato anche l’ultimo professore, rimasero soli.
«Bene, mi sembra di aver consegnato la mia vita al patrimonio dell’umanità, o meglio ai tentativi di Mishuna Torkama!»
«Perché dici questo?»
«Hanno voluto togliersi qualsiasi tipo di responsabilità. Insomma era come dire: “Signori, noi ci proviamo, poi come va va, con questa cavia.”»
Sofia cercò di metterla sullo scherzo. «E dai, non dire così! Sono dei professionisti e poi non si è mai sentito di un uomo che mette il suo corpo a disposizione per la ricerca e che, invece di essere pagato, paga lui!»
«Già… E quanto paga!»
Sofia lo tranquillizzò. «Amore, il professor Mishuna Torkama sarà bravissimo e sono sicura che in questo super ospedale non c’è una persona che non sia preparata…»
Andrea pensò a quell’unico caso di morte. Si chiese se anche quel paziente avesse firmato tutti quei fogli e se anche per lui ci fosse stata la sua stessa équipe. Decise che non era il caso di farlo presente a Sofia. Aveva fatto di tutto per portarlo fin lì. Aveva scritto all’ospedale, cercato i documenti necessari, seguito ogni singolo dettaglio. E poi aveva trovato tutti quei soldi… Fece un sospiro. Aveva la speranza di una nuova vita, questa era l’unica cosa che contava, non poteva distruggere tutto con il suo cinismo.
«Hai ragione…»
Avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro ma non fe-ce in tempo. Arrivarono due infermiere. Entrarono con un sorriso.
«Andrea Rizzi? Eccoci qui, è ora.»
Andrea non rispose nulla, sorrise anche lui ma non era certo rilassato come loro. Gli sembrava più una formula di quelle esecuzioni capitali all’americana piuttosto che la sua operazione. Le due infermiere sganciaro-no il letto dal muro e sbloccarono le ruote.
Andrea fece appena in tempo a guardare Sofia.
Lei gli strinse forte la mano.
«Ci vediamo dopo, amore. Ti aspetto qui.»
Andrea stava sudando freddo. Deglutì. Aveva la bocca asciutta, riuscì soltanto a farle un sorriso stentato. Poi il letto fu spinto fuori dalla stanza, iniziò il suo tragitto attraverso un lungo corridoio poi scomparve nell’ascensore. Andrea aveva le infermiere alle sue spalle. Non poteva vederle. Chiuse gli occhi e fece un lungo respiro, poi l’ascensore si riaprì. Erano scesi molto in basso rispetto all’edificio, alla fine di un altro lungo corridoio, dove l’aria era molto più fredda, si aprirono due grandi porte e il letto fece il suo ingresso nella sala operatoria.
Il professore Mishuna Torkama era al centro della stanza,’ aveva le braccia alzate e la sua assistente stava finendo di calzargli i guanti.
«Ecco il nostro amico…»
Subito dopo il suo ingresso, alcuni infermieri si avvi-cinarono al letto e intorno ad Andrea si chiuse un cerchio di camici blu. Gli furono attaccate alcune flebo, l’anestesista lo avvertì che mancavano pochi istanti. Poi sotto quell’ultima mascherina riconobbe i tratti del professore asiatico.
«Tra poco dormirà, scelga il posto dove vorrebbe andare. Al mare, in montagna, partecipare a una maratona. Sogni quello che vuole…»
Andrea si stava addormentando.
«Perché se tutto va bene, se noi…» il professore guardò i suoi colleghi, «se saremo bravi, il suo sogno si avvererà.»
I colleghi risero. Qualcuno disse qualcosa ancora ma Andrea non ci fece caso. Finalmente si sentì sereno.
Cercava di restare sveglio ma gli occhi gli si chiudevano.
“Una maratona. Non sarà facile. Sono un po’ fuori allenamento. Meglio una vacanza.” Li riaprì e lentamente li richiuse. “Ecco, al mare, una passeggiata su una spiaggia proprio come quelle di cui mi ha parlato Sofia.” E
con la massima fiducia in una nuova vita si addormentò del tutto.
Maria Tondelli camminava tranquilla per la sua strada. Aveva fatto la spesa a quel nuovo supermercato GS.
Era apparso da un giorno all’altro proprio lì a un chi-lometro da dove lei ormai abitava da quattro anni. Per essere un quartiere nuovo di Torino, stava acquistando importanza e valore. Gli ultimi palazzi costruiti erano stati edificati con grande stile e cura. Era arrivata anche una nuova linea di filobus, che con i suoi sedili colorati era un’ottima soluzione per andare in centro in maniera comoda e senza trovare traffico.
C’era solo un piccolo problema. Maria Tondelli non avrebbe potuto abitare in un posto come quello. Il villino dove viveva era oltre le sue possibilità o almeno di quelle che sarebbero dovute essere. Veniva dalle Marche, era l’ottava figlia di una famiglia molto umile.
Il padre era pastore e la madre faceva la sarta in un piccolo negozio. Per l’esattezza tutta la famiglia viveva in un piccolo paese vicino a Chiaravalle dove a rappresentare la vita notturna c’era solo un piccolo pub. Tutti i suoi fratelli erano rimasti in quel paese a vivacchiare, a intrecciare relazioni più o meno riuscite con qualche ragazza del posto.
Maria Tondelli invece era stata un’avventuriera rispetto a loro. Aveva lasciato il paese e aveva trovato lavoro.
Tancredi guardò i fogli che Savini gli aveva procura-to. C’era voluto pochissimo tempo per avere notizie su quella donna e c’era tutto: soldi, guadagni, conti, lavori precedenti.
Per un periodo aveva frequentato degli uomini anziani, si era fatta pagare per delle vere e proprie pre-stazioni fino a quando, questo passaggio non era molto chiaro, era diventata una cameriera presso la villa Ferri Mariani. Aveva lavorato per tre anni da loro e poi, appena due settimane dopo la morte di Claudine, aveva lasciato il lavoro. La polizia, una volta classificata quella morte come suicidio, aveva cercato, come spesso accade quando c’è di mezzo una famiglia importante, di chiudere il caso il prima possibile. Un’attenzione pro-lungata da parte dei media non sarebbe stata altro che una mancanza di rispetto nei confronti di quel dolore.
E così infatti accadde. Tutto rientrò in tempi molto brevi e in quei salotti che erano soliti frequentare non se ne parlò più. Dopo i funerali di Claudine fu come se tutti si fossero messi d’accordo, l’argomento non venne mai sfiorato. Fu naturale quindi che allora nessuno ci avesse fatto caso. Ma dopo circa dieci giorni dalla morte di Claudine, Maria Tondelli, una ragazza di bassa estrazione sociale, che veniva dalle Marche e prendeva un ottimo stipendio, aveva lasciato, senza un’apparente ragione, la casa dei Ferri Mariani. Perché? C’era stato un problema nella sua famiglia? Le mancava troppo il suo ragazzo? Aveva deciso di sposarsi? Aveva trovato un lavoro migliore? Era diventata particolarmente amica di Claudine e avrebbe sofferto continuando a vivere in quella casa? Savini aveva controllato ogni documento possibile, aveva scavato in ogni direzione. Nulla, la scelta di andarsene non era stata presa per nessuna di queste ragioni né per nessun’altra che in qualche modo potesse sembrare valida.
Quando Maria Tondelli se ne andò, Tancredi non se ne accorse. Era stravolto dal dolore tanto è vero che, appena gli fu possibile, anche lui abbandonò quella casa. Ma se Tancredi sapeva perfettamente per quale ragione lui se ne fosse andato, perché Maria Tondelli avesse abbandonato villa Ferri Mariani era un mistero.
Tancredi riguardò i fogli. Maria Tondelli era la proprietaria di quel villino dove abitava. Eppure non aveva vinto al Lotto né all’Enalotto né al Gratta e vinci né ad un altro gioco o scommessa. Savini aveva controllato anche questo. Quel villino le era stato regalato. Era stato intestato a suo nome da una società fantasma e in questo caso, malgrado le grandi capacità di Savini, non era stato possibile rintracciare a chi facesse capo perché era passato troppo tempo. Ma la cosa più strana e inspiegabile era che Maria Tondelli veniva ancora sti-pendiata della famiglia Ferri Mariani.
La Mercedes seguì per qualche metro la ragazza, poi la lasciò sfilare. Maria tirò fuori le chiavi ed entrò in casa.
Savini spense il motore. «Dovrebbe essere sola.»
Aspettarono qualche minuto poi si presentarono alla porta e suonarono.
Maria urlò da lontano: «Arrivo…».
Aveva già iniziato a preparare qualcosa in cucina, co-sì si asciugò le mani sul grembiule, se lo sfilò e si diresse verso la porta. Quando aprendo vide Savini e Tancredi li riconobbe subito, per un attimo rimase sorpresa, poi provò a chiudere la porta. Ma Savini fu più veloce e infilò il piede bloccandola. Attraverso quel pezzo di porta aperta Tancredi guardò Maria Tondelli. Quando i loro sguardi si incrociarono, le sorrise.
«Ti ricordi di me?» Lo disse con una certa durezza.
«Non vi avevo riconosciuto» mentì Maria, poi cercò di giustificarsi. «Ma è passato così tanto tempo…»
«Già, non ci vediamo da quando è morta mia sorella.» Tancredi non aveva mezzi termini. «Possiamo entrare?»
Li tenne sulla porta. «Non capisco.»
Savini sorrise. «Vuoi perdere questa casa? Vuoi perdere i soldi che ti arrivano ogni mese proprio dalla famiglia Ferri Mariani? Vuoi che i tuoi genitori Damiano e Manuela e tutti quelli del tuo paese sappiano tutto di te? Dei tuoi amanti anziani? Vuoi che aggiunga altro?»
Maria rimase ammutolita, poi capì che non le conveniva e si mise da parte facendoli entrare. Chiuse la porta e li accompagnò in salotto.
«Volete qualcosa da bere?»
«No, vogliamo sapere cosa è successo e perché.»
Tancredi era andato subito al dunque. Poi su quella credenza vide qualcosa e rimase sorpreso. Questa non se l’aspettava. Una foto. C’era Maria Tondelli che sorrideva, era stata fatta lì proprio in quel salotto e accanto a lei c’era la persona che non avrebbe mai immaginato di trovarci.
Tancredi la prese in mano, cercò di capire quando era stata fatta. Aprì la cornice, tirò fuori la foto, la girò, non c’era nessuna data. Intervenne Maria. «Non ci vediamo più da tantissimo tempo.»
Allora era quello il segreto? Erano stati amanti? Perché avrebbe dovuto trattare quella donna in maniera diversa, allontanarla, regalarle una casa, mantenerla per tutto questo tempo?
«Se non parli perderai tutto. Che cosa ti ha portato sin qui?»
«Nulla.»
Savini le parlò in maniera dura. «Forse non ti è chiaro. Ti rovinerò la vita in ogni modo possibile. Perché ti ha dato questa casa? Perché sei ancora mantenuta da lui?»
Maria Tondelli rimaneva in silenzio. Savini intervenne di nuovo.
«Rovinerò la tua famiglia, i tuoi fratelli, contatterò tutti i tuoi ex amanti. Alla fine mi pregherai in ginocchio di smettere…»
Maria si lasciò cadere sul divano, mise la testa tra le mani e cominciò a piangere. Era disperata. Tancredi e Savini le lasciarono un po’ di tempo.
«Allora?»
Poi Maria Tondelli cominciò a parlare.
«La sera che Claudine si tolse la vita…» guardò Tancredi, «lei passò alla villa a cambiarsi e poi uscì di nuovo.»
Tancredi ricordò quel momento con dolore.
«Sì, e tu come molti altri della servitù, eravate nella dépendance. Ma non c’era nessun altro.»
Allora Maria abbassò la testa e fece un lungo sospiro.
Aveva sempre immaginato che prima o poi sarebbe successo. Allora alzò la testa e fissò Tancredi dritto negli occhi confessando quella verità che aveva nascosto per tutti quegli anni.
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