«Sì.»

Poi lo lasciò andare, lo mise di fronte a sé e lo guardò in faccia. «Giura che non dirai niente a nessuno.»

«Giuro.»

«Magari un giorno ti ci farò salire.»

«Ma come l’hai chiamata? Gliel’hai dato un nome?»

«Ancora no. Ci penserò. Andiamo ora, che deve essere pronta la cena.»

Tancredi camminava per il sentiero che portava al bosco. L’aveva chiamata “l’isola”, le aveva dato quel nome dopo aver visto il cartone animato di Peter Pan.

Come aveva fatto a non pensarci? Era l’unico posto che non gli era venuto in mente. Aveva guardato sul suo computer, aveva cercato tra la sua posta, tra i suoi messaggi, un indizio, un fatto, un perché della decisione di quella notte. Ma “l’isola” non gli era venuta in mente.

Forse perché non c’era mai stato, perché non ne avevano più parlato. Perché era stata dimenticata come se fosse appartenuta a un altro periodo, quasi a un’altra persona.


Poco dopo Tancredi arrivò lì sotto, ai piedi di quell’albero. Era come se vedesse Claudine ancora un-dicenne che saliva su, si arrampicava su quelle tavole e gli faceva segno di seguirla. Così mise la sua mano sulla prima tavola. Era bagnata. Doveva aver piovuto la notte prima. Si sentiva l’odore della pioggia, il profumo dell’erba ancora fresca, il muschio su quelle tavole. Salì lentamente, stando bene attento a tenere il piede contro la tavoletta, a non farla staccare dall’albero. Non era più leggero come allora. Poco dopo fu sull“‘isola”.

Le grandi tavole che facevano da pavimento oscilla-vano sotto il suo peso, scricchiolavano ma erano state ben inchiodate. I chiodi erano arrugginiti, i buchi delle tavole segnati come a testimoniare il tempo passato. Si guardò in giro. Era come una piccola casa. Aveva fatto un gran lavoro Claudine, chissà quanto tempo c’era voluto. Chissà se lo aveva fatto da sola. Per terra c’era qualche cassetta di legno della frutta. Dovevano servire da sedie visto che poco più in là due grandi assi inchiodate tra loro fungevano da tavolo.

Poi la vide. Allora gli si strinse il cuore. La prese tra le mani, era bagnata, ancora umida, scolorita e consumata dalla pioggia e dal freddo di tutti quegli anni.

Peonia, così aveva chiamato la sua bambola di pezza.

I bottoni pendevano lenti dal petto, dondolavano tristi, trattenuti da qualche filo allentato. E solo allora, pog-giandola su quelle assi, si accorse che lì dietro c’era una scatola. Era di vimini, con un nastro rosso ormai logoro che la teneva chiusa. La prese, la mise su quel tavolo improvvisato e l’aprì. Una busta di plastica trasparente proteggeva il contenuto. Claudine doveva aver pensato alla possibilità delle piogge. Quindi era stata lasciata lì apposta… Non immaginava che sarebbe passato tutto questo tempo però. “Forse era destinata a qualcuno in particolare. Forse è sempre stata qui per me.” Allora piano piano srotolò quella busta di plastica e l’aprì.


Per prima cosa trovò una lettera. Riconobbe la sua scrittura. Cominciò a leggerla.

“Ciao Tancredi, solo tu potevi arrivare qui, e ora ca-pirai cosa volevo tanto dirti, come mi era impossibile andare ancora avanti. Avevo quattro o forse cinque an-ni la prima volta che mi sono fidanzata con lui…”

Continuò divorando le parole, leggendo una riga do-po l’altra, sperando di trovare qualcos’altro al posto di quello che ormai sospettava.

“All’inizio ero anche felice di ricevere tutti quei regali.”

Il respiro di Tancredi cominciò a farsi più corto.

“Tutte quelle attenzioni…” Più affannato. “Sentirmi più importante di voi due… Ma poi ho capito che non era così.” Allora si sentì gelare e in un attimo tutta quella che era stata la sua infanzia, quel bellissimo castello fatato davanti ai suoi occhi crollò.

“La prima volta che papà mi ha preso è stata terribile. Ho urlato ma eravamo soli. Ho pianto, mi sono disperata, il dolore è stato enorme e non ho capito nulla. “

Allora continuò a leggere, come inebetito, ogni singola parola era come una coltellata, una ferita e poi un’altra e un’altra ancora, lì, nello stesso punto, ancora più a fondo, sempre più dolorosa.

“Ha continuato così e io urlavo ogni volta ma eravamo soli. Poi mi sono abituata ma tutto è stato ancora più terribile. Abbiamo iniziato dei giochi. Ma io non mi divertivo.”

Allora Tancredi guardò in fondo alla busta e improvvisamente la sua rabbia crebbe a dismisura. Quando prese in mano quelle foto non credette ai suoi occhi.

Erano come insanguinate, gli pesavano come un enorme macigno, come un ferro rovente appena uscito dal fuoco, gli bruciavano addosso, come se quella tremen-da verità lo stesse marchiando. Allora sentì quel grido e fu come se fosse inciso sulla sua pelle: colpevole. Colpevole di non aver capito, di non essere restato quella se-ra, di averlo permesso per anni, di non aver sospettato niente. Colpevole.

E si sentì morire e pianse come se Claudine fosse morta per la seconda volta.

Gregorio Savini passeggiava di fronte alla Mercedes nera. Ingannava il tempo spostando con il piede ciuffi d’erba bagnata, facendo rotolare ogni tanto qualche sasso dalla strada verso il ciglio. Quando lo vide arrivare, non lo riconobbe. Il suo viso era segnato e teso.

Rabbia e dolore, odio e follia convivevano in ogni suo tratto. Savini si trovò spiazzato, non sapeva cosa dire, non lo aveva mai visto così. Allora aprì semplicemente lo sportello. Tancredi si lasciò cadere nel sedile posteriore. Accanto a lui posò una busta con qualcosa dentro. Savini salì davanti. Mise le mani al volante ma rimase fermo, in silenzio. Non aveva il coraggio di guardare nello specchietto. Poi sentì l’ultima cosa che avrebbe potuto immaginare. «Voglio ucciderlo.»


Quando arrivarono, era ormai il tramonto. Savini non fece in tempo a fermare l’auto che Tancredi scese.

Si attaccò al campanello della porta.

Una cameriera venne ad aprire, lo riconobbe. «Buonasera, signore…»

Ma non riuscì a dire altro perché lui entrò correndo, attraversò il salotto, aprì le porte una dopo l’altra, quella dello studio, della cucina, di una camera da letto, di un’altra, un bagno e infine l’ultima.

Sua madre era lì, seduta su una poltrona. Quando lo vide entrare sorrise.

«Tancredi, che bello che sei venuto…»

Stancamente si alzò, gli andò incontro, lo abbracciò.

«Ti ho cercato tanto in questi giorni ma non ti ho mai trovato. Avevo detto a Gianfilippo di avvisarti…»

Poi si staccò da lui e lo prese per mano.

«Guarda…»

Come una madre con il suo figlio più piccolo, lo con-dusse a quel letto.

Suo padre Vittorio era lì, con gli occhi chiusi. Una macchina sbuffava, un soffietto verde andava su e giù, pompando ossigeno, cercando in tutti i modi di farlo respirare, di tenerlo ancora in vita. Delle flebo partiva-no da alcune boccette appese lì intorno, perdendosi tra le sue braccia, alimentandolo.

«È entrato in coma.»

Tancredi lo guardò. Era lì, davanti a lui, inerme.


I suoi occhi chiusi, uno sguardo sereno, c’era perfino una specie di sorriso su quel volto. Era come se ridesse di lui, come se si divertisse beffardo, come se dicesse: “Vedi com’è il destino, figlio mio? La vita a volte ci prende in giro. Ora che finalmente sai tutto, non puoi fare niente, non puoi punirmi. Non solo, ma lo raccon-terai? Darai questa cattiva notizia a tua madre? A tuo fratello? Che farai? Non credo. Non dirai chi era veramente tuo padre, non li deluderai. Dovrai portare per sempre con te il peso di questa verità”.

«Hai visto poverino? E così da tre giorni.»

La madre si portò la mano alla bocca e cominciò a piangere, in silenzio. Lei, donna a volte distratta, lei che aveva spesso perdonato i tradimenti di Vittorio, ma che non sapeva certo di quale terribile delitto si fosse mac-chiato.

«Ma come mai sei qui? Ti ha cercato Gianfilippo?

Gli avevo detto di chiamarti.»

Tancredi rimase per un attimo in silenzio, guardò di nuovo il padre, il viso smagrito, le sue rughe, quelle mani immobili. Le immaginò per un attimo, allora chiuse gli occhi inorridito. Poi si girò verso sua madre, era lì, accanto a lui, senza colpe, con un’innocenza in qualche modo più fragile, mista alla sua vecchiaia, allora le sorrise.

— «Sì, mamma, l’ha fatto. Sono venuto appena ho potuto.»

Dopo aver pronunciato quelle parole Tancredi sentì tutto il peso di quella bugia. Quella donna anziana, ormai stanca, quella donna illusa, forse ancora innamorata di quell’uomo, non poteva sapere. Non doveva sapere.

Allora la madre l’abbracciò di nuovo e lo strinse a sé.

«Tuo padre è forte… Ma questa volta ho paura.»

Tancredi teneva le braccia lungo il corpo e senza volerlo si toccò la tasca della giacca. La lettera, quelle foto terribili, erano tutte lì, a un passo da sua madre. Sarebbe bastato un niente per farle vedere chi aveva avuto vicino, quale mostro aveva dormito nel suo letto, aveva approfittato di sua figlia. Dall’età di quattro anni fino a quell’ultima notte, quando Claudine, esausta, non sapendo più come affrontare il peso di quella storia, non aveva trovato altra soluzione. Si era tolta la vita.

Claudine. Claudine che non aveva conosciuto l’amore, che non era uscita con un ragazzo, che non aveva dato un bacio, che non aveva detto “ti amo”, che non aveva pianto per una storia finita o festeggiato per una appena iniziata. Claudine che aveva vissuto il sesso co-me una tortura, una punizione ricevuta da chi, più di tutti, avrebbe dovuto invece amarla.

Allora Tancredi abbracciò sua madre e cominciò a piangere. E lei quasi ne fu sorpresa. Si staccò da lui, gli asciugò le lacrime, gli accarezzò i capelli e gli sorrise cercando di consolarlo.

«Su, su, non fare così.»

Tancredi piano piano tornò a controllarsi. «Ti voglio bene, mamma. Ti chiamerò presto.»

E se ne andò, portando via con sé quell’unico dolore, il peso della verità.


«Sofia, guarda…»

Il girello procedeva lentamente. Andrea riusciva a muovere le gambe, avanzava piano, un passo dopo l’altro, tenendosi forte sulle braccia, trascinando a tratti le gambe ma riuscendo anche a piegarle.

«Hai visto? E come se fossi tornato bambino!» Sorrideva felice, il suo entusiasmo riempiva la casa, era come se ci fosse una luce nuova, si riusciva quasi a toccare l’energia di quella nuova vita.

Sofia lo guardava sorridendo. Andrea si staccò dal girello e si lasciò cadere sul divano.

«Basta, non ce la faccio più.»

«E passato appena un mese. Ce ne vorranno almeno sei per essere indipendente e riuscire a fare qualcosa di più senza appoggiarsi. Te l’hanno detto.»

— Andrea era tutto sudato. «Per me comunque è stato un miracolo. E poi quando mi è arrivata quella newsletter e ho saputo di questo professore, dei suoi studi sulle staminali applicate all’interno del midollo osseo, era la mia storia, non volevo crederci… Questa è la grandezza di una rete di comunicazione, di internet! La criticano tanto ma ci permette di essere informati in continuazione.»

Sofia gli fece una carezza su un braccio.

«Già.» Aveva le vene ingrossate per lo sforzo.

«Vuoi qualcosa da mangiare?»

«Sì, magari.»


Si alzò e andò in cucina. Poco dopo tornò con una bottiglietta di Gatorade.

«Intanto prendi questo. Ormai è come se ogni volta tu facessi una vera e propria partita di calcetto.»

Andrea sorrise. «E magari fra un anno, questo potrà accadere veramente.» Poi diede un lungo sorso.

Proprio in quel momento suonarono al citofono. Sofia si alzò e rispose.

«Sì, ti apro.»

Poi tornò in salotto. «Sta salendo Stefano.»

Andrea cercò di tirarsi su, poggiandosi sui braccioli del divano. Piano piano ci riuscì.

Sofia gli avvicinò la sedia a rotelle, la tenne ferma, così che Andrea riuscì a scivolarci sopra.

«Ecco fatto.»

Poi Sofia prese al volo un asciugamano e glielo passò sulla fronte. «Tanto suderai un bel po’ anche lì.»

Suonarono alla porta, lei andò ad aprire. «Ciao.»

Stefano era di buonumore.

«È pronto il nostro campione?»

«Certo!» Andrea scivolò sulla sedia a rotelle infilando la porta di casa, tanto che Stefano si spostò veloce.

«Mi hai quasi preso!»

«Vedrai che prima o poi ci riesco.»

Poi Stefano si rivolse a Sofia.

«Mi ha detto Lavinia se vi va di venire a cena da noi sabato…»

«Perché no, dopo magari la chiamo.» Poi chiuse la porta. Rimase nel silenzio improvviso di quella casa. Si sedette al tavolo e cominciò a pensare. La vita e i suoi mille rivoli.