Andò alla macchinetta a prendersi un caffè. Mentre lo beveva, si sentì chiamare.
«Sofia?» Si girò.
La sua anziana insegnante di piano era lì di fronte a lei, nel corridoio buio della scuola dove lei stessa tanti anni prima aveva suonato le sue prime note. «Ciao, Olja.»
Olja, o meglio Olga Vassilieva, insegnava con Sofia alla chiesa dei Fiorentini e al conservatorio. Era russa e vestiva ancora in modo antiquato, portava gonne larghe ricoperte da una strana sopragonna preso da chissà quale baule sopravvissuto al primo arrivo in Italia della sua famiglia. Le due donne si abbracciarono, poi Olja si scostò da lei ma la tenne ancora tra le braccia.
«A cosa pensavi?»
«Perché?»
«Avevi un’espressione… era scomparso il tuo solito sorriso.»
“E per un attimo sei sembrata vecchia come me”
avrebbe voluto aggiungere la sua insegnante, ma sapeva che quelle parole forse l’avrebbero ferita.
«Oh» sorrise Sofia. «Alle cose che ho dimenticato di fare…»
«O a quelle che hai smesso di sognare?» Olja non le diede tempo di rispondere. «Hai avuto un dono specia-le ed era particolarmente bella la tua innocenza.»
«Quale innocenza?»
«Di trovare naturali le capacità che avevano queste fantastiche dita.» Prese le sue mani. «Guarda che non mi dimentico che insieme abbiamo preparato Rachmaninov… e avevi soltanto diciassette anni. Ora invece le vedo segnate, stanche, rovinate. E soprattutto…» cercò i suoi occhi, «ti vedo colpevole.»
«Ma va’, Olja… Io non ho fatto niente.»
«E proprio questa la tua colpa. Non hai fatto niente.»
Ora Sofia era diventata seria. «Te l’ho detto che non avrei più suonato. È stato un voto per lui, per la sua vi-ta. Ho pregato per questo e ho rinunciato alla cosa più bella che avevo, rinunciare al resto sarebbe stato facile… Spero che un giorno lui possa guarire e io tornare a suonare. Ma purtroppo per ora non è stato possibile…»
E Olja vide in quel “per ora” una traccia di speranza, un barlume di luce, quel lumino che a volte si lascia acceso nella stanza dei bambini per rassicurarli se mai si svegliassero di notte. Allora sorrise. Era ancora una ragazzina, ma proprio per le sue capacità, e soprattutto per il suo amore per la vita, doveva essere risvegliata.
«Sei colpevole, Sofia, non perché hai rinunciato alla musica, ma perché hai rinunciato alla vita.»
E rimasero così, nel silenzio di quel corridoio, lì dove Sofia aveva iniziato i suoi studi a sei anni, conseguendo il diploma di pianoforte. L’unica tra tutti gli allievi del conservatorio in grado di suonare i Dodici studi trascendentali di Liszt a memoria prima del decimo anno.
Olja era stata la sua insegnante di pianoforte principale e non si era mai stancata di emozionarsi tutte le volte che la vedeva mettere le mani sulla tastiera, Sofia, la giovane promessa italiana, la pianista che avrebbe sorpreso il mondo, di questo si parlava nell’ambiente.
E ora eccola lì, una semplice insegnante.
Poi Olja la guardò con più dolcezza. «Anche i matrimoni o le storie più belle finiscono, ma non per questo non sono stati importanti. Quasi sempre ci si sforza per capire di chi è stata la colpa quando magari non è di nessuno dei due. Come è successo a te, Sofia.»
Allora lei abbassò gli occhi per trovare un po’ di tranquillità, come accade a quei pianisti che cercano il silenzio del pubblico e la propria concentrazione prima di portare entrambe le mani sui tasti del pianoforte.
Questa volta però non seguì nessuna esecuzione. Poi le fece un semplice sorriso, debole, fiacco ma a suo modo convinto. «Non posso.» E poi quello sguardo pieno di dolcezza che cercava il perdono di un’insegnante. Ma che non trovò. Olja non capiva.
Sofia si allontanò velocemente per il corridoio, poi cominciò a correre, salì le scale, aprì la porta, la spa-lancò e uscì dal conservatorio. Si ritrovò fuori, tra la gente, nella luce del giorno. Ferma in piedi, nella piazza, mentre la gente le passava vicino, davanti, dietro, ignorandola. Qualcuno andava all’edicola, qualcun altro entrava in un bar, altri passeggiavano chiacchieran-do, qualcuno alla fermata aspettava l’autobus. “Ecco”
pensava, “voglio essere così, ignorata, sconosciuta tra la gente. Non voglio fama né successo, non voglio essere una pianista dall’esecuzione perfetta, non voglio che si occupino di me, non voglio domande e non voglio trovare risposte.”
Allora si incamminò lentamente, come se fosse invi-sibile, non sapendo che presto invece si sarebbe trovata ad affrontare la domanda più difficile della sua vita.
Vuoi essere di nuovo felice?
Le pale dell’elicottero giravano veloci. Il pilota piegò di poco a destra la cloche, affrontando dolcemente quell’ultima cresta particolarmente innevata.
«Ecco, siamo arrivati. Il campo è laggiù.»
Gregorio Savini guardò con un potente binocolo a circa cinquemila metri di distanza. Il piccolo campo sembrava disegnato sul profilo del sole che stava sorgendo poco più in là.
Il pilota tirò a sé la cloche e disattivò alcuni inter-ruttori, preparandosi ad atterrare. Le pale rallentarono.
Gregorio lo studiò nei movimenti, era bravo anche se molto giovane. Dopo aver volato per ben sei ore con il jet personale di Tancredi, erano atterrati nell’aeroporto di Toronto e da lì erano ripartiti con l’elicottero per i monti intorno a Thunder Bay. Ormai erano quasi quattro ore che si trovavano in volo e sentiva qualche leggero acciacco. Aveva fatto di tutto nella sua vita: contractor, paracadutista, comandante di aerei e perfino l’elicotterista. Aveva pilotato anche il Sirosky S-, che ora stava guidando il giovane pilota ed era per questo che poteva apprezzarne le capacità. Per un lungo periodo da giovane aveva amato la guerra ed era stato mercenario, aveva conosciuto il sangue, la violenza e la crudeltà, tanto da averne la nausea. Allora era entrato nelle forze di terra impegnate in controlli e verifiche di eventuali attacchi terroristici. Era lì che aveva imparato tutte le più raffinate tecniche di intercettazione, copertura e intelligence. Non c’era persona della quale Gregorio Savini non potesse sapere tutto e anche con una certa facilità. Aveva costruito una rete di amicizie, fatta di favori e regali che piano piano si era estesa in ogni parte del globo.
Questo progetto era stato voluto da Tancredi. All’inizio Gregorio aveva accettato l’incarico con qualche reti-cenza, ma poi aveva capito quanto fosse importante per Tancredi. In poco tempo questa rete era servita a ogni loro necessità, qualsiasi problema trovava facilmente una soluzione o la strada più semplice da percorrere.
Gregorio si era così dovuto ricredere. E da quel giorno aveva guardato con altri occhi quel ragazzo.
Gregorio aveva un ottimo rapporto con Tancredi.
Era stato chiamato da suo padre fin da quando lui era molto piccolo per esserne il tutore, la guardia del corpo, l’autista, ma anche in qualche modo per fare le sue veci.
Era arrivato in quella villa che aveva quasi trent’anni.
«Perché hai la pistola?» Il piccolo Tancredi era spuntato dalla finestra aperta sul giardino. Gregorio se ne era accorto da tempo ma aveva fatto finta di niente.
Tancredi, il più piccolo dei fratelli, era anche quello più curioso nei suoi confronti.
«Questa?» sorrise alzando lo sguardo sul bambino alla finestra. «Serve a far comportare bene le persone cattive.»
Tancredi fece il giro ed entrò dalla porta, si appoggiò alla sedia di paglia che era nell’angolo. «E quante sono le persone cattive? Più di quelle buone?»
Rimase così con lo sguardo ingenuo e un bel sorriso da bambino ad aspettare curioso la risposta.
Gregorio finì di oliare la pistola e se la rinfilò nella fondina che portava sotto la spalla sinistra. «Sono lo stesso numero. Sono i buoni che a volte perdono di vista quello in cui avevano creduto un tempo.»
La risposta piacque a Tancredi, anche se forse non l’aveva capita del tutto.
«Allora devi sparare a Gianfilippo. Aveva detto che avremmo giocato insieme a tennis e ora è al campo che gioca con il suo amico. Prima era buono e ora è diventato cattivo.»
Gregorio gli accarezzò la testa. «Non si diventa cat-tivi per così poco.»
«Ma me l’aveva promesso!»
«Allora un po’ cattivo è stato. Andiamo a vedere i cavalli, ti va?»
«Sì, mi piacciono…»
Raggiunsero le stalle e passarono lì tutto il pomeriggio. Accarezzarono un giovane cavallo arabo, arrivato da chissà dove. Gregorio si trovava bene con Tancredi, aveva sempre desiderato un figlio e chissà che la vita non tenesse ancora in serbo questa sorpresa per lui. Ma per come si era abituato a vivere, non sarebbe stato facile.
Aveva sempre avuto delle relazioni molto brevi, quanto la sua permanenza in un luogo. Certo, ora era già qualche mese che stava con quella famiglia, lo pa-gavano bene, il posto gli piaceva e forse questa volta sarebbe rimasto più a lungo del solito. Magari avrebbe conosciuto una ragazza del posto e passato tutto il resto della sua vita lì.
Tancredi lo tirò per la giacca. «Gregorio, posso salirci?»
«Non hai paura?»
«Perché dovrei? Questo cavallo è mio, me l’ha regalato mio padre.»
“Già, questo bambino ragiona così.”
«Ma non è una cosa, è un animale e gli animali sono diversi dagli uomini. Sono istintivi. Non lo puoi comprare, se si trova bene con te allora non avrai problemi, altrimenti potrebbe anche non essere mai tuo.»
«Neanche se l’ho pagato proprio io…»
Gregorio sorrise. «Neanche in quel caso.»
«E come si può fare allora?»
«Con l’amore. Vieni.» Lo prese in braccio, lo avvicinò al cavallo e piano piano gli portò la mano verso la criniera. «Ecco, accarezzalo, così.» Ma appena Tancredi ci provò, il cavallo nitrì alzando il muso all’improvviso, tanto che il bambino ritrasse subito la mano, spaventato. Gregorio Savini rise.
«Ma come, hai detto che non avevi paura!»
«Me l’hai fatta venire tu con tutti quei discorsi!»
Gregorio lo mise giù. Era furbo. «Tieni, dagli queste…» Gli passò un po’ di zucchero. Questa volta il cavallo fu più tranquillo e Tancredi riuscì a mettergli delle zollette in bocca prima di tirar via la mano. Dopo appena una settimana, era sul cavallo e passeggiava nel recinto davanti alle stalle. Gregorio lo teneva a bada con una lunga corda, facendolo girare in tondo e pian piano Tancredi stesso, dando di tacco per quel che poteva, lo portò al trotto.
«Ecco guarda, Gregorio… Ora va, cammina… Funziona!»
«Ricordati che è un animale e ha bisogno del tuo amore.»
Mentre andava, Tancredi gli accarezzò il collo e gli disse qualcosa all’orecchio. Gregorio fu felice di avergli insegnato ad andare a cavallo. Quella fu la prima delle tante cose che gli insegnò, ma poi Tancredi crebbe e dopo la morte di Claudine cambiò. A diciannove anni decise di abbandonare per sempre la villa in Piemon-te, cominciò a viaggiare e volle Savini sempre con sé.
Forse anche per questo Gregorio aveva abbandonato l’idea di avere un figlio, perché in qualche modo l’aveva trovato in lui e senza le naturali complicazioni di avere vicino una donna. Il loro rapporto era andato crescendo anche se avevano mantenuto sempre un certo distacco.
«Ecco. Siamo arrivati.»
Le pale del motore cominciarono a rallentare mentre i pattini toccavano terra affondando nella neve. Non fecero in tempo a scendere dall’elicottero che un vecchio indiano gli venne incontro.
«Ben arrivati! Com’è andato il viaggio?»
«Benissimo, grazie.»
«Immagino che vorrete riposare un po’… Ci sono due tende tutte per voi. Dentro troverete anche del materiale nuovo per stare più caldi, come mi avete chiesto.
Vi ho fatto prendere giubbotti in pile e microfibra. Andate pure, io vi aspetterò qui fuori.»
Tancredi guardò Gregorio e gli sorrise. Savini aveva pensato proprio a tutto, nei minimi particolari e in pochissimo tempo. Un uomo così era di un valore unico.
“Sono stato fortunato” pensò e scomparve nella sua tenda. Quando più tardi uscì, Gregorio e l’indiano erano già pronti. Montarono tutti e tre sulla jeep e salirono sulla montagna per le strette strade del monte.
«Io sono Peckin Puà. O almeno così mi chiamano da queste parti. Il mio vero nome è molto più lungo e molto più difficile ma è inutile che ve lo dica perché ormai mi sono talmente abituato a questo che, se mi chiamaste con l’altro, forse neanche mi girerei… Ah ah.» E rise da solo con una risata un po’ goffa che alla fine inciampò in un colpo di tosse, facendo intuire in qualche modo il vizio del fumo. Del tutto assente, invece, il senso dell’umorismo.
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