Tancredi e Gregorio si guardarono. Gregorio allargò le braccia sentendosi in qualche modo responsabile di quell’inutile tentativo di cabaret. Tancredi gli sorrise, tutto sommato anche questo faceva parte della bellezza dello scenario. La jeep saliva lungo la stretta e ripida strada della montagna. Il sole stava sorgendo velocemente, alcune pareti si illuminarono all’improvviso. La neve brillava e rifletteva la luce rosa dell’alba che andava a colpire gli anfratti più bui e nascosti.
«Ci fermiamo qui.» Scesero tutti e tre dalla jeep.
Peckin Puà chiuse gli sportelli e aprì il grande bagaglia-io. «Mettetevi queste…» Allungò a Tancredi e Gregorio delle grandi racchette da neve. Subito le calzarono. «E
ora prendete questi.» Passò loro la vera ragione per cui Tancredi era voluto andare fin lassù. Le balestre in fibra di carbonio. Leggere, precise, mortali. Avevano dieci frecce già pronte nel caricatore e una ipotetica portata e precisione fino a trecento metri. Tancredi aveva scoperto quest’arma micidiale in un articolo e l’idea che in Canada ci fosse quella nuova caccia l’aveva improvvisamente entusiasmato.
«Andiamo di qua e tenete le punte verso il basso.»
Ora Peckin Puà non scherzava più. Camminarono lentamente nel canyon e con grande fatica risalirono una collina di neve fresca. Continuarono così per più di un’ora quando arrivarono all’ingresso di un canyon più piccolo.
«Shhh…»
Peckin Puà si accucciò dietro una roccia.
«Dovrebbero essere qui.»
Piano piano sollevò la testa facendo capolino da dietro un masso. Sorrise. Sì. Proprio come pensava. Pasco-lavano tranquilli in quella piccola radura, staccavano delle piccole bacche da alcuni cespugli. Il sole ormai era alto e faceva più caldo. Tancredi e Gregorio si avvicina-rono a quelle rocce e guardarono il punto indicato da Peckin Puà. Allora li videro. Era una bellissima coppia di cervi bianchi. Uno era più grosso, alto, austero, aveva le corna fitte e forti e ogni tanto le incastrava dentro quei cespugli e li scuoteva e quasi li sradicava tant’era la forza del suo collo. Ma così facendo aiutava la sua compagna a mangiare le bacche che erano cadute nella neve. Peckin Puà prese il binocolo che teneva al collo e li mise a fuoco. Poi guardò la numerazione sopra le lenti. «Sono più di trecento metri. È un tiro impossibile.»
«Difficile ma non impossibile» disse Tancredi, liberando la sicura della balestra.
L’indiano sorrise. «Sì, quasi impossibile e molto fortunato.»
Tancredi si accovacciò, armò la balestra e la poggiò tra le rocce. Poi accostò l’occhio al mirino. E improvvisamente quel cervo maschio comparve nella lente. Bello, distratto, innocente. Continuava sotto il sole la sua lotta con i rami del cespuglio, se li scrollava quasi di dosso, ballava con le corna arcuando la schiena, mostrando la forza dei suoi muscoli, di quelle zampe selvagge abituate da sempre ad arrampicarsi tra quelle rocce. Poi fu come se sentisse qualcosa. Si fermò di colpo nell’aria. Alzò la testa e fissò un punto. Rimase fermo, immobile, sospet-toso. Aveva avvertito qualcosa. Un pericolo, un altro animale, ancora peggio, l’uomo. Il cervo si girò a scatti una volta, due. I riflessi del sole incrociarono il suo sguardo e non vide nulla. Allora, incauto, ritornò a occuparsi del cespuglio.
Tancredi portò l’indice sul grilletto.
«Fermo.» La mano dell’indiano si posò all’improvviso sulla balestra.
Tancredi si girò verso di lui. Lo fissò. L’indiano non si staccò dal suo potente binocolo. «Guarda.» Indicò con la mano in quella stessa direzione. Tancredi rimise l’occhio al mirino e lo spostò di pochi millimetri. Tra i due cervi spuntò all’improvviso un giovanissimo cerbiatto bianco. Arrancava incerto sulle sue giovani zampe, scivolava, cadeva ogni tanto con il muso nella neve.
Allora la madre lo rimetteva in piedi, aiutandolo come poteva, spingendolo da sotto. Al sole, tra quelle montagne innevate, regnava il silenzio.
Alti pini carichi di neve ogni tanto liberavano i propri rami. Si sentiva allora il suono di una cascata attutito da quell’ultimo manto di neve sotto gli alberi e quell’eco aleggiava leggera per tutta la vallata. La famiglia di cervi bianchi era libera, felice, completa, nel suo perfetto ciclo naturale: vivere, nutrirsi, riprodursi.
Peckin Puà sorrideva guardandoli. «Troveremo qualche altro esemplare più in là, spostiamoci.»
Tancredi scosse semplicemente la testa. Gregorio ca-pì cosa intendeva. Fermò l’indiano. «Siamo venuti per cacciare, non per fare i sentimentali.»
«Ma…»
«I soldi che ha voluto, e sono tanti, non guardano in faccia le emozioni.»
La discussione sarebbe potuta andare avanti se non ci fosse stato quell’improvviso sibilo. La balestra eb-be un minimo sussulto. La freccia era partita. Peckin Puà prese il binocolo con tutte e due le mani, lo strinse forte, lo portò subito agli occhi cercando di vedere, di seguire quella freccia, sperando che sbagliasse. Da trecento metri quell’inesperto cacciatore avrebbe potuto non fare centro. E invece… Stock. Quell’immagine im-macolata, i due giovani cervi, il piccolo in mezzo a loro, la montagna bianca alle loro spalle, il manto di neve sugli alberi. Fu come se improvvisamente si incrinasse.
La neve ai piedi di quel quadro cominciò a tingersi di rosso. L’indiano abbandonò il binocolo.
«Ha sbagliato bersaglio.»
Tancredi rimise a posto la balestra. «No. Era il più difficile. Avevo mirato lui.»
Il piccolo cerbiatto piegò le gambe e cadde con il muso a terra frenando nella neve. Il cranio era stato trafitto da parte a parte e una piccola pozza di sangue si formò lentamente intorno a lui. I due cervi adulti erano immobili, osservavano la loro creatura senza capire. La caccia era terminata.
«Torniamo in città.»
Roma. Aventino. Nelle stradine intorno agli antichi archi, all’inizio della via Appia, tra le ville romane e le grandi pietre del passato, Tancredi correva.
Scorci di verde, caldo. Si teneva in forma ogni mattina, dovunque fosse, New York, San Francisco, Londra, Roma, Buenos Aires, Sidney. Correre per lui era una distrazione, un riordinare pensieri, un disporre giorna-te, programmi, desideri. Correndo gli erano venute le idee più belle. Era come se piano piano si mettessero a fuoco da sole, come se diventasse chiaro ogni volta il giusto passaggio.
Aumentò il passo. All’interno del minuscolo iPod ultimo modello c’erano successi di tutto il mondo: Sha-kira, Michael Bublé, i Coldplay, la playlist che Ludovica Biamonti aveva predisposto per lui. Era lei ad aver preso il posto di Arianna e ormai da più di tre anni tutto procedeva nel migliore dei modi. Era una personal stylist perfetta, di un gusto impeccabile. Aveva costruito una rete di persone che curavano ogni minimo dettaglio della vita di Tancredi. L’acqua che lui amava e beveva, la Ty Nant, la trovava in ogni casa, dalla Sicilia al Piemon-te, da Parigi a Londra, da New York alla sua minuscola isola alle Fiji. Dovunque andasse l’acqua sarebbe stata quella. Così come la scelta dei vini, del caffè e di ogni altro prodotto, che veniva testato, assaggiato e valutato prima di occupare il suo posto nelle varie case. Non so-lo. Ogni fine mese veniva fatto in ogni casa l’inventario di tutto, ciò che c’era, ciò che mancava e in qualunque momento Tancredi arrivasse era come se avesse vissuto lì dal giorno prima. Dal pane fresco al latte, dal giornale alla rassegna degli ultimi avvenimenti importanti del luogo dove si trovava e di quelli internazionali.
Ogni anno Ludovica Biamonti sostituiva completamente gli arredi, rendendoli inevitabilmente à la page.
Eccetto la casa alle Fiji, isola talmente bella e naturale, che non aveva bisogno di cambiare troppo nel tempo.
Lì il progetto di un grande architetto aveva reso la villa un gioiello incastonato nelle rocce, in perfetta armonia con il verde dell’isola. Una piscina naturale entrava in casa. Murene, squali, grandi tartarughe, vivevano sul fondo della piscina, al di là di quello spesso cristallo di oltre dieci centimetri. Si poteva quindi fare il bagno come se si fosse all’interno di un grande acquario senza correre assolutamente alcun rischio.
Il salotto era in legno bianco, proveniente dalle grandi foreste russe dove Tancredi aveva comprato per anni grandi appezzamenti di terreni, allargando così a dismisura il suo impero e senza mai figurare in alcun modo.
Agli occhi di tutti era un semplice ragazzo di trentacin-que anni, elegante forse, che amava le cose belle, ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare che occupasse i primi posti nella classifica degli uomini più ricchi del mondo.
Ludovica Biamonti aveva pensato a tutto, quella di-mora era incantevole, un salotto elegante, un’unica vetrata immersa nella natura, e i divani color tortora, che si intonavano perfettamente con i due quadri, Aha o e feti? di Paul Gauguin e A Bigger Splash di David Hockney. In un angolo c’era invece la scultura di Damien Hirst, Lo squalo. Quella casa era perfetta per una vita d’amore. Ecco forse perché era quella in cui Tancredi con meno facilità si fermava durante i suoi viaggi. Perché lui era l’uomo colto, ricco, l’uomo che non voleva amare. Quella casa, come del resto le altre, non avrebbe mai udito le risate di una donna felice e amata, come non avrebbe udito le risate di un figlio. Eppure Ludovica Biamonti non sapeva ancora che si stava sbagliando su una cosa.
L’anno dopo averla assunta, Tancredi aveva controllato personalmente tutte le proprietà. Aveva guardato con cura ogni singolo dettaglio, dai frigoriferi alle tende nuove, dai tappeti agli asciugamani, dalle lenzuola ai piatti. Aveva viaggiato ininterrottamente con il suo jet ed era tornato pochi giorni dopo aver visitato tutte le case. Solo allora aveva confermato la sua assunzione.
«È perfetta, prendiamola!» aveva detto a Gregorio e poi, uscendo dall’ufficio, lo aveva guardato. «Ma è sposata sul serio, vero? Non vorrei trovarmi di nuovo con Sara in piscina…» aveva continuato scherzando.
Gregorio aveva riso. Il giorno dopo però era andato a controllare personalmente i documenti del matrimonio della signora Ludovica Biamonti con un certo Claudio Spatellaro. Era tutto vero, sposata in chiesa e in comune. Solo allora Savini aveva tirato un sospiro di sollievo.
Improvvisamente un tuono. Come un segno del destino. A cielo aperto, in uno splendido pomeriggio di giugno. Inaspettato. Violento. Cupo. E subito un capo-volgersi del mondo. Il cielo diventò scuro. Il sole scomparve e un vento leggero alzò le poche foglie finite a terra. Poi quella pioggia improvvisa, violenta, rabbiosa, grossa. A dirotto, come vere e proprie secchiate d’acqua che arrivavano dall’alto, da chissà quale sciocco inqui-lino infastidito dalle chiacchiere notturne di nessuno.
Tancredi stava ascoltando Ben Harper quando si trovò travolto da quell’improvviso nubifragio estivo. E
accelerò il passo, in un attimo completamente zuppo con l’acqua che gli entrava nella maglietta, nei pantaloncini, nelle mutande, nei calzettoni e poi nelle scarpe.
E gli venne da ridere, lui sempre così preciso, metodico, quasi infastidito da qualsiasi imprevisto sulla sua tabella di marcia, si ritrovò ragazzo sotto quell’acqua. Il cielo era diventato ancora più scuro e la pioggia era diventata fredda, un attimo dopo era grandine. Cadeva giù a toc-chi, piccoli e grandi sassi che rumoreggiavano su ogni cosa fosse lì intorno. Secchi dell’immondizia, lamiere, macchine, sembrava un facile tiro al bersaglio dall’alto o uno strano concerto dal ritmo veloce e continuo pescato da chissà quale repertorio africano.
Tancredi decise che era il momento di sottrarsi a quella pioggia. Poco oltre il ciglio della strada vide una chiesa. Fece a due a due gli scalini e arrivato sotto il porticato trovò subito riparo. Ma il vento continuava a soffiare, anzi sembrava aumentato. La pioggia e la grandine ora cadevano di traverso e quel riparo era inutile.
Allora Tancredi si appoggiò al grande portone in legno.
Era aperto. Lo spinse con tutte e due le mani e la cosa che lo colpì di più, entrando in quella chiesa, furono la luce e il calore. Moltissime candele di tutte le dimen-sioni erano accese su antichi candelabri, alcuni piccoli, bassi, altri più elaborati. E tutte le fiammelle ondeg-giavano, si piegavano avanti e indietro assecondando quell’improvvisa corrente. Quando Tancredi accostò il portone tutto tornò come prima. La porta si richiuse da sola con un tonfo sordo, poi dal lato opposto della chiesa tutte insieme delle voci.
Due violini, una viola, un flauto e pochi altri stru-menti. I dieci bambini terminarono un’aria che anche dalle poche ultime note sentite gli sembrò bellissima.
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